Quaranta giovani siriani espongono le proprie storie dai campi di Shatila e Burj el-Barajneh, Beirut

Zoukak è un teatro semisepolto nel traffico di Karantina, a nord di Beirut. Una piccola scalinata ad angolo conduce a uno spoglio piano ammezzato, qualche pianta a segno di benvenuto, due piccole finestre inferriate da cui non esce illuminazione né suono: soltanto un leggero brusio, in sottofondo, che invita a entrare. È ciò che resta di uno spazio industriale dismesso, i pavimenti grigi e freddi, le moderne luci al neon e l’unica stanza che il vuoto espande a platea. Eppure il palcoscenico è un altro. Il manifesto dell’evento in corso – Tales of Art – bianco, con verdi caratteri cubitali, timidamente mostra la strada.

Sono le storie di identità – le storie di vita – di quaranta giovani siriani rifugiati nei campi profughi di Shatila e Burj el-Barajneh. Hanno tra i dodici e i diciotto anni e il palcoscenico è il loro: famiglia, identità e vita quotidiana fanno da sfondo a decine di opere ispirate al cubismo, al modellismo tridimensionale, alla ritrattistica, al fumetto, al collage, all’arte che ricorre al simbolo per veicolare un messaggio altrimenti soffocato dal fardello dell’essere nati profughi.

La loro scuola è Alsama, un vibrante ed energico centro di educazione secondaria, nato come una ONG per l’empowerment femminile inserendo cricket e yoga nei curriculum scolastici. In quanto siriani, questi ragazzi di vita non hanno accesso alle scuole UNRWA che l’agenzia delle Nazioni Unite dedica ai rifugiati palestinesi nei campi – Shatila e Burj el-Barajneh – fondati nel 1948 dopo la fondazione dello stato di Israele e la massiva espulsione che seguì, aprendo l’enorme capitolo di una Nakba, in arabo «catastrofe», che non si è ancora conclusa. Ma la catastrofe siriana è un’altra, recente – ormai vicina a compiere il suo dodicesimo compleanno –, e più che di un’occupazione mostra il volto lacerato della guerra intestina. 

Alcuni dei ragazzi di Alsama non hanno mai visto la terra d’origine; altri ci sono nati ma le esplosioni si sono portate via i ricordi ammaccati; altri ancora, invece, ricordano ed è lì che ambiscono a tornare: come avvocati, scrittori, investigatori, architetti, e chissà cos’altro. Seppure in modo diverso, ciascun artista ha sentito l’impatto della guerra, sviluppando un’attitudine speciale nei confronti della vita che è seguita, l’infanzia snodandosi per vie intricate, documenti da rinnovare, esistenze da riconoscere in un timbro. Eppure sono orgogliosi, trattengono le proprie identità frantumate vicino al petto, strette, e spavaldi esprimono le proprie ambizioni, i successi, i sogni.

Yaman, ad esempio, nell’opera “Il mio supporto”, affianca al disegno di una mano di bambina che stringe quella paterna il senso di sicurezza che la guerra le ha strappato. La perdita della casa, se chi le abita sopravvive, traduce l’appartenenza nella mobilità giornaliera del tragitto dal campo al lavoro, nell’attesa del rientro serale, nella sensazione di stringere una grande mano adulta «for fear of getting lost in this cruel world»: per paura di perdersi in questo mondo crudele. Di stringerla come fanno i neonati, che riescono appena ad afferrarne un dito. E a suo padre chiede, Yaman che ormai ha diciassette anni ma già due vite alle spalle, di non lasciarla «sola nell’oscurità interiore».

Hadeel, invece, la casa la associa a un cielo notturno puntellato di stelle: anche nel suo dipinto due mani si stringono – anche qui, il ritorno del padre incarna le fondamenta che lo sfollamento ha compromesso, e l’essere senza patria costantemente minaccia.

Una madre sola protegge due figli: il suo nome è Mariam e ha appena ventitré anni. “I miei pezzetti di zucchero”, titola il trio volgendoci le spalle per guardare il tramonto, il dipinto intriso di simboli e riferimenti che soltanto loro sapranno cogliere, travolti senza toccarsi dalla sensazione di appartenenza reciproca che la lontananza coatta non mina ma rinsalda. 

E poi Aya e la sua “Frustrazione di vita”; Asmaa con la “Notte stellata in una città araba”; Fatima a matita e carboncino, la sua “Idlib sotto le ceneri”, un semiritratto di donna trasformata in cera, il lumino di una candela sotto un astro ferito che la costringe a sciogliersi in un pianto silente. «La donna», spiega, «mostra la sofferenza interiore di un popolo, indipendentemente da ciò che stiamo combattendo, questa sofferenza si trasforma in luce. La luce della candela muta in luce dentro di noi». Ancora, l’“Immaginazione” di Abdel Hay, un cartoncino che si fa tridimensionale per ospitare, nella proiezione della mente di un bambino di dodici anni, ciò a cui vuole che il suo futuro assomigli: pittura, pace, aria aperta e cielo azzurro.

Una soltanto tra le opere esposte è collettiva: ventitré studenti vi hanno lavorato mettendo insieme il riciclo di spazzatura raccolta per l’unica strada che segna il perimetro dell’esistenza quotidiana. Il soggetto, senza titolo, è ciò che tiene insieme ciascuna delle loro storie di identità spezzate e ricombinate creativamente, di passati nebbiosi e chiari futuri, lontananze, ambizioni: è il presente dello sfollamento nel campo, è Burj el-Barajneh per come lo vedono loro – adolescenti con centinaia di vite alle spalle – e a cui noi altri non avremmo accesso, se non fosse per l’arte; l’accostamento di fotografie astratte in bianco e nero, che se ti avvicini, con sguardo attento puoi riconoscere i tratti tremanti dei palazzi cadenti e i cavi elettrici a penzoloni, e quasi ti sembra di sentire il rumore, il trambusto, il brusio senza sosta del campo. Il movimento è schizofrenico, elettrificato, e se provi a convincerti che questo sia Burj el-Barajneh ti sbagli: perché è molto di più. È Burj el-Barajneh nello sguardo di bambini che non avendo altra opzione che esserne immersi nel caos, scelgono di raccoglierne i rifiuti e trasformarli in arte.