In arabo si dice sempre mukhayamat ma i campi della Beqaa qui li traducono settlements, insediamenti, per l’aspetto transitorio e poco strutturato rispetto a quelli palestinesi che costellano i centri urbani di Beirut, Saida, Tripoli, Baalbek. I campi siriani non hanno nome, ma numeri: e così le tende. Wahad, tnen, talate, fino a khamseenw aktar. Uno due tre cinquanta e chissà quanto oltre ancora. L’UNHCR è presente in forma di logo sui tendoni che fanno da tetto, e spesso sottosopra, rattoppati per la tenacia delle piogge di dodici inverni, dodici inverni di ticchettii e neve sgocciolante, dodici inverni dall’inizio dell’harb ahliye, la guerra civile.

Ad abitare le tende dell’insediamento numero-settanta-o-ottanta è-difficile-dirlo decine di famiglie di rifugiati che il governo libanese non vede, avendo proibito dal 2015 alle agenzie internazionali di contarne gli ingressi. La Siria è proprio lì, di là dalle montagne con le vette innevate. Gli invisibili che abitano la valle della Beqaa ma che in mezzo a questa neve si distinguono talmente che tutto li diresti fuorché invisibili; ebbene queste famiglie di sfollati che non puoi chiamare ri-fu-gia-ti perché il paese che li ospita e non li vede non ha firmato la Convenzione di Ginevra, dunque non riconosce il diritto d’asilo, dunque schiva magistralmente la responsabilità di prendersene cura; ebbene queste persone che presi dal categorizzare ci dimentichiamo essere u-ma-ne in giorni gelati come questo non possono che starsene chiusi nelle tende a respirare la plastica e il nylon che gettano nelle stufe a legna quando di legna asciutta da ardere non ce n’è. Anche di acqua e di medicine e di cibo non ce n’è, e di bagni uno soltanto per tutto il campo, che con una pioggia come questa preferisci trattenere, anche se l’ospitalità di queste per-so-ne sopravvissute alla guerra all’esilio e al freddo di dodici inverni ti circonda sotto forma di tè alla menta sempre troppo zuccherato, e tu proprio non puoi rifiutare e allora trattieni e per un istante ti sembra d’intuire quello che la pioggia significhi. Poi ti ricordi che sei qui da appena due ore e allora taci perché la pioggia tu proprio non lo sai che cos’è. Ti accolgono coi piedi nudi che poi intrecciano sotto il peso del corpo per mettersi a sedere, scrutarti, farti domande sulla tua nazionalità e sul tuo stato matrimoniale, perché ogni europea non sposata è un’opportunità meno rischiosa della Libiya e del bahr – della Libia e del mare – w sijn w sijn – e prigione e prigione – per la libertà. 

Alcune famiglie dei campi della Beqaa. Foto di Valeria Rando.

«Cosa volete che vi dica» – prova a giustificarsi una giovane donna con un bambino che le ronza intorno – «qui non possiamo restare, e se torniamo in Siria ci costringono al khadime il-zamiyye, il servizio militare, e se ti opponi è il carcere. Bisogna pur mangiare, come faccio a dare da mangiare a mio figlio?». Tra la morte certa di fame e quella probabile in mare, attraverso la Libia verso un sogno chiamato Europa, Nour e tutti gli abitanti di queste tende che neppure al buio diresti invisibili, non hanno dubbi: sono disposti a rischiare. E il bambino che probabilmente è suo figlio continua a girovagare per la tenda che è la sola casa che abbia mai visto, ed è l’unico tra tutti a sorridere, a stupirsi di ogni scarafaggio, ogni goccia di pioggia, ogni sorso di tè. Quando è nato, Hammoudi, nessuno lo sa. Anche qui i ragazzini non hanno compleanno e se glielo chiedi sono nati tutti il primo gennaio di un anno a cui arrivano faticosamente sottraendo al 2023 il numero che gli è stato consegnato come ‘umur, la parola che in arabo significa età e vita insieme. Faticando arrivano a khamastash aw sittash, quindici o sedici, e le ragazze col pancione  appena a thamantash, diciottenni. Ma da quanto tempo vivono questa vita – questa vita da sfollati invisibili così nettamente stagliati e scuri scuri sullo sfondo innevato – è difficile dirlo. 

Una famiglia dei campi della Beqaa. Foto di Valeria Rando.

Ogni domenica l’associazione Salam LADC organizza a casa di Nour un corso di fotografia. Tony, libanese, fa da insegnante. Oggi ha chiesto ai suoi studenti di scegliere un tema su cui concentrare il proprio obiettivo nei prossimi mesi, e a titolo di esempio ha selezionato la guerra. Ha srotolato la tenda che fa da finestra e sullo schermo del suo computer ha sfilato una serie di fotografie della storia del mondo in conflitto. Su due si catalizza l’attenzione: quella di Hitler, uno scatto della propaganda degli anni Trenta, e quella dei corpi morti di tre soldati americani sulla spiaggia di Buna, Papua Nuova Guinea,del 1943. Pare la versione museale della foto di Alan Kurdi, il bambino siriano trovato morto sulla costa meridionale turca nel 2012: e queste persone lo sanno.

Le tende dei campi della Beqaa e uno studente del corso di fotografia. Foto di Valeria Rando.

Conoscono il prezzo dell’esilio forzato, della rinuncia, del distacco e del non avere scelta. Anche se sono solo adolescenti. Quando lo si domanda, a questi piccoli uomini di quindici o sedici anni coi piedi scalzi e i vestiti logori, su che cosa focalizzare il proprio sguardo fotografico nei mesi a venire, la scelta, è evidente, non è poi molta. A guardarsi intorno, tutto quello a cui hanno accesso è confinato in una manciata di tristezze. Il-shita’ fil-mukhayama – l’inverno nel campo; il-bard, il-ju’e, il-faqar – il freddo, la povertà, la miseria; affacciando lo sguardo oltre vette della Siria, sul confine orientale della Beqaa, verrebbe da dire il-hanin – la nostalgia; e se solo l’Europa si vedesse, da questa valle, forse uno scorcio si aprirebbe sull’amal, la speranza, a-ogni-costo.