Questo è un racconto piccolo, che parla di una storia piccola. Di un gruppo di persone che organizza una carovana di aiuti da portare ai confini dell’Ucraina. 5 auto, 4 furgoni e un pullmann con 1500 kg di materiale raccolto attraverso donazioni spontanee di milanesi, in meno di una settimana*. Perciò, è necessario un disclaimer: nessuna pretesa di spiegare i fatti che accadono in Ucraina, ma solo una cronaca della nostra esperienza. Del perché siamo partiti, di come l’abbiamo fatto, di cosa abbiamo visto e di quali riflessioni ci ha suscitato. Per lasciare memoria di un vissuto di solidarietà che per quanto piccolo, per quanto goccia nel mare delle storie che si stanno intrecciando ai confini dell’Europa, resta comunque unico.
*la carovana è stata organizzata dalle associazioni Rob de Matt, Refugees Welcome Italia, St. Ambroeus F.C., I bambini dell’est. Questo articolo rappresenta il punto di vista dei suoi autori
Cominciamo dalla fine. Dall’arrivo a Pino Torinese a bordo della nostra Dacia Sandero insieme a Ludmilla e Anatoli, una coppia che due giorni prima aveva lasciato la sua casa a Zytomir, a 150 km a ovest di Kiev, per scappare dalla guerra. La loro età precisa alla fine non l’abbiamo capita. Quando li abbiamo incontrati la prima volta, in mezzo al fiume di persone del centro umanitario di Przemysl, in Polonia, lui ci era parso piuttosto anziano. Sarà perché aveva un bastone da passeggio e gli tremavano le mani.
Se ha voluto portarsi il bastone, oltre a una piccola borsa, vuol dire che gli è davvero essenziale, ho pensato. Immagino che quando si lascia la propria casa in fretta, a piedi, si scelga di portare con sé poche cose, quelle davvero utili.
Lei invece, Ludmilla, era un po’ più giovane, avrà avuto 60 anni. Occhi piccoli e chiarissimi. È stata lei a vedermi, all’inizio. Me ne stavo in piedi ferma, in mezzo al via vai di ucraini appena arrivati in Polonia, tenendo alto un cartello con su scritto tre nomi di città: Cracovia, Vienna e Milano. Ce ne erano tanti come me in quel corridoio largo: drivers registrati con un braccialetto azzurro al polso – sono bene organizzati i polacchi – con un cartello self made – i volontari scandinavi e tedeschi erano più bravi anche in quello, coi loro cartelli multilingue e prestampati.
Noi ci siamo improvvisati: pennarello, cartone e google translator. È stato un sollievo quando Ludmilla mi ha indicata esclamando “Milano!”: per un attimo avevamo temuto di non farcela a tornare indietro con le persone, come volevamo.
C’erano infatti già due pullman in partenza per Milano – uno dei quali faceva parte della nostra carovana – e ad un certo punto era sembrato non servissero altri driver per l’Italia in quel momento. Avevamo temuto di essere inutili: la peggiore delle sensazioni. Non avevamo percorso tutti quei chilometri con la macchina carica di pannolini e vestiti per bambini, per tornarcene scarichi. E allora ci siamo gettati nel fiume di donne e bambini con quei cartelli, e pochi minuti dopo siamo partiti con Anatoli e Ludmilla a bordo. Pochi kilometri fuori da Przemysl, i due sono piombati in un sonno profondo. Noi ci siamo stretti la mano e abbiamo continuato a guidare in silenzio.
Non abbiamo mai acceso la radio, e ci siamo parlati sottovoce per quasi tutto il viaggio lungo 1500 km. Vista dal finestrino di un auto, quella parte di Polonia appare un’immensa e monotona pianura.
Ogni tanto qualche casa, qualche cervo, penso ai tanti cacciatori che vengono qui a fare mattanza di questi maestosi animali. Immagino l’Ucraina, un manciata di km più a est: non deve essere troppo diversa. Ma c’è la guerra. Cullati dalla leggera vibrazione della macchina, i pensieri e le emozioni iniziano a prendere forma e a distinguersi gli uni dagli altri. Com’è che siamo finiti qui, in questo luogo e con queste persone sconosciute che dormono nella nostra macchina? Un giorno, poco meno di una settimana prima, avevamo saputo che Rob de Matt – l’associazione di promozione sociale che a Milano gestisce un ristorante inclusivo e luogo di formazione per persone in difficoltà – avrebbe organizzato una spedizione al confine ucraino per portare generi di necessità e per cucinare un pasto caldo ai profughi.
La notizia ci aveva subito allargato il cuore: da giorni, come tanti, vivevamo nell’angoscia suscitata dalle notizie sulla guerra in Ucraina e dal senso di impotenza.
Quando abbiamo saputo che serviva una macchina in più per la carovana non ci abbiamo pensato due volte, e così siamo partiti. La mattina della partenza abbiamo trovato decine di persone venute apposta per darci una mano a caricare tutti i veicoli dei sacchi e degli scatoloni che le persone avevano spontaneamente portato a Rob de Matt nei giorni precedenti.
Sui pacchi era stato scritto il contenuto: pampers, children clothes, baby food. Già, perché è questo che serve – ci spiega Edoardo, uno dei fondatori di Rob de Matt, che ha appena sentito la Protezione Civile di Roma, già operativa in Polonia.
È così che siamo partiti, spinti da un bisogno di fare che forse per troppo tempo, complice la pandemia, era rimasto inappagato, sepolto sotto una routine fatta di una normalità autoriferita. Arriviamo a Przemysl dopo un viaggio di 20 ore.
La destinazione è un ex centro commerciale convertito in centro umanitario. La prima cosa che vediamo sono montagnette di vestiti su un prato squallido, e persone che rovistano.
All’inizio, spaesamento. Siamo arrivati ma nessuno, ovviamente, ci stava aspettando. Siamo in mezzo a un brulicare di persone, una babele di lingue, qualche giornalista in piedi col microfono davanti al cameraman.
Andiamo alla ricerca dei nostri contatti in loco che ci mostrano dove si trova il magazzino. Abbiamo nove veicoli carichi di roba da donare. Al magazzino incrociamo un signore che sta riempiendo un furgone per poi partire per Odessa. Gli diamo tanti scatoloni dei nostri, più che possiamo. Facciamo modo di impilarli sapientemente nel bagagliaio, per non sprecare nemmeno un centimetro di quel prezioso spazio. “Do you need blankets? And toothpaste?”
Alla fine lui ci ringrazia, ci abbraccia, vuole fare la foto insieme. E parte. Il resto del carico lo lasciamo in un enorme magazzino dove una decina di giovanissimi volontari polacchi sta organizzando il materiale che arriva. Sono rapidi ed efficienti. Torniamo al centro umanitario e restiamo per molte ore davanti all’ingresso, nel parcheggio.
Lì montiamo un piccolo stand e iniziamo a cucinare la pasta al sugo. All’interno del centro umanitario ci sono centinaia di persone. Sono quasi tutte donne, e moltissimi bambini. Gli unici maschi che vediamo hanno meno di 18 anni, o più di 60.
Oppure hanno delle disabilità fisiche importanti. Tutti gli altri sono dovuti rimanere in Ucraina. Anziani, donne e bambini: la triade fragile delle guerre. Vediamo centinaia di madonne della guerra: donne che cullano i loro bambini piccoli, sedute in mezzo ai trolley, in attesa di prendere un pullman che le porterà in un luogo sicuro. Non sembrano disperarsi, mantengono la calma, sono concentrate su quel che devono fare. Sono solide per i loro figli.
Chissà chi hanno dovuto lasciare, chissà come è stato quel saluto. I volontari polacchi – sono davvero tanti e indossano pettoraline gialle fosforescenti – allungano ovetti di cioccolato e lecca lecca ai bambini, strappandogli dei sorrisi facili che in quel momento sono oro. Si è pensato anche ai cani e ai gatti che molte famiglie stanno portando con sé.
C’è uno stand di cibo per animali e una toilette a loro dedicata. Tante prese della corrente per ricaricare i telefoni, e stand che regalano sim con minuti gratis di telefonate.
Il flusso di persone in entrata e in uscita è continuo. Ogni tanto diamo un’occhiata alle notizie sulla guerra: la Russia ha iniziato a colpire anche le zone occidentali vicino al confine polacco. Qui il flusso di persone è destinato ad aumentare. Questo è solo un luogo di passaggio verso un altrove. Ci sono stand per chi vuole recarsi in Germania e nei paesi scandinavi, le mete più ambite. Quelli che scelgono l’Italia – ci spiegano – solitamente lo fanno perché hanno parenti da cui stare. È così infatti per Anatoli. Sua figlia Elena vive vicino a Torino ed è lì che lui e la sua compagna Ludmilla sono diretti.
Sarà poi infatti Elena, alla fine del viaggio, a raccontarci la loro storia. Si erano decisi a lasciare la loro città dopo che era stata bombardata. Avevano preso un treno per la Polonia e poi avevano incontrato noi. Non è la prima volta che scappano dalla guerra. Sono originari del Donbass e nel 2015 avevano deciso di trasferirsi nella parte occidentale dell’Ucraina.
Mentre Elena ci parla, Anatoli inizia a conoscere il suo nipotino di quattro anni che non aveva ancora mai incontrato. Ludmilla si avvicina a noi e per la prima volta dall’inizio del viaggio si racconta attraverso Elena: è grata per tutto l’aiuto che le è stato offerto – e mentre ci ringrazia iniziano a uscirle le lacrime e cerca un abbraccio: ha due figli grandi che sono dovuti rimanere in Ucraina, si trovano a Kharkiv. Il suo corpo ora è in salvo, ma il suo cuore non ancora.
Ci portiamo indietro tante piccole gioie, quelle di aver partecipato ad una comunità solidale in grado di rispondere ad una richiesta di aiuto e di compartecipazione. Di questo siamo grati a Rob de Matt per esserci stata e per proporsi di continuare ad essere. Abbiamo avuto la conferma che se qualche volta puoi fare una seppur piccola differenza per qualcuno, la cosa più giusta che puoi fare è cercare di farla. Ci siamo caricati di un poco di superfluo per portarlo dove era necessario. Abbiamo vissuto momenti di normalità che sembravano stravaganti.
Abbiamo visto persone utilizzare i locker di un amazon locale posti all’entrata del centro commerciale come in un qualsiasi giorno ordinario, anche se nel frattempo il centro era diventato umanitario.
Bambini incollati a schermi di cellulari in ricarica, fatto oggetto di riprovazione nella quotidianità di chi lo può dare per scontato, ma che accetti molto più facilmente come normale se si tratta di piccoli profughi.
Abbiamo accompagnato in silenzio due persone verso un luogo sicuro anche se alieno e per una delle due nemmeno familiare. Scambiato poche ma sentite parole, fino a qualche lacrima, con una famiglia in ansia per parti della stessa ancora lontane e insicure. Di sicuro non possiamo dire di averci capito molto di più, sui torti e le ragioni, sul perché c’è una guerra in corso. Per capire i perché di una guerra dovresti metterti nella mente di chi quella guerra la vuole, la fa.
Ma in quelle scarpe non riusciremmo a camminare. È stato un viaggio lungo, abbiamo attraversato tre confini, Austria, Repubblica Ceca e Polonia, ma è stato un viaggio lungo più che altro nel tempo. Siamo tornati ad una dimensione temporale del secolo scorso, in cui i confini si decidono con i corpi d’armata. La guerra come risoluzione di problemi e non come problema, la guerra come possibile normalità. A questa normalità da realpolitik non possiamo conformarci. Alla fine siamo partiti perché per arrivare da chi questa guerra la subisce bastano due pieni di serbatoio. E quindi è possibile, è a portata di tanti e sicuramente alla nostra.