Women are half the society. 

You cannot have a revolution without women. 

You cannot have democracy without women. 

You cannot have equality without women. 

You can’t have anything without women.

Nawal El Sadaawi

foto di Sara Biasci

Sono giorni di fermento a Gaza City, per le strade polverose si mescolano i clacson alle urla entusiaste dei ragazzini, confusi sulla provenienza di quelle facce pallide, che camminano sudate sotto il sole già caldo di inizio giugno. 

C’è chi saluta, Salam Alaikum, chi ride, chi storce il naso, chi chiede o offre sigarette, tutti allo stesso modo incuriositi dalla sfilata che si profila davanti a loro. Vestiti colorati, braccia scoperte, caviglie che spuntano da pantaloni di tela, capelli ricci lisci biondi castani, capelli che svolazzano ovunque, irriverenti e scalmanati. 

In testa hanno tutti la stessa domanda: Che ci fanno nella Striscia di Gaza più di 70 europei?

La striscia di Gaza è un territorio chiuso, da anni noto come la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Lungo 46 e largo 10 chilometri, questo sottile lembo di terra si affaccia dal lato ovest sul Mar Mediterraneo ed è circondato da un muro che lo separa a est dallo stato di Israele e a sud dal confine egiziano. Al suo interno abitano quasi due milioni di persone, in lotta continua per una sopravvivenza dignitosa. La privazione di beni di prima necessità come acqua potabile o elettricità, rappresentano una delle tante violazioni nella vita dei gazawi, da anni costretti da un opprimente e repressivo assedio. La possibilità di spostarsi all’esterno di questo rigido confine sottostà a fortissime restrizioni, e la gran parte della popolazione che lo abita non ha mai messo piede fuori dal territorio. Esistono pochi, difficili modi per uscire dalla Striscia: per ragioni mediche; per ragioni lavorative; per motivi di studio e per poche altre tortuosissime vie. 

Altrettanto complesso, risulta il tentativo di entrarvi, per chi, come noi, parte con l’idea di costruire, progettare e proporre, collaborando assieme ad un popolo imprigionato, la fievole speranza di offrire una novità, talvolta banale, talvolta squisitamente occidentale, ma pur sempre una novità. 

Ecco allora cosa ci fa, in una confusa fila indiana su quel lungomare disordinato, quella comitiva dall’Italia.

Questa è la cronaca di un tentativo, una nobile ed estrema presunzione di spettinare qualche chioma assopita partendo dall’unione di tante teste, alcune coperte da hijab, altre svolazzanti. 

Il 2 giugno ’22 la carovana arriva al tedioso valico di Erez. È composta per lo più da donne, più o meno giovani, partite con ideali comuni e la voglia di coinvolgere una popolazione resistente in quello che sarà un evento femminista. L’obiettivo è la realizzazione di tre giornate dedicate alla rappresentazione e condivisione di ciò che significa essere donna all’interno di un territorio deprivato come quello gazawo, attraverso l’incontro di moltissime donne di diversa estrazione e cultura. 

foto di Elitta Rebeggiani

Le giornate, organizzate dal collettivo Gaza Freestyle in collaborazione con realtà italiane e locali come Mutuo Soccorso, Assopace Palestina, la Casa della Donna di Roma, il Centro VIK di Gaza City, Association for Women and Child Protection, We Are Not Numbers, Union of Palestinian Women Commettee, Palestinian Development Women Studies Association, sono nate con l’obiettivo di realizzare il primo forum femminile della Striscia di Gaza.  I tre momenti di incontro hanno favorito il confronto e lo scambio di più di 200 donne attiviste e professioniste provenienti da associazioni che da anni si battono per la tutela di situazioni di vulnerabilità, promuovendo e facilitando meccanismi di empowerment comunitario femminile. 

Sette le associazioni locali coinvolte, sette collettivi che da anni combattono contro una preoccupante e diffusa indifferenza, contro una condizione dilagante di violenza e oppressione. 

Tra le organizzazioni che hanno partecipato spiccano nomi come l’Association for Women and Child Protection (AISHA), che da anni si occupa di implementare e potenziare il ruolo delle donne nello sviluppo comunitario, promuovendo inoltre alla creazione di un ambiente sensibile alla protezione dei diritti dei bambini, o ancora We Are Not Numbers (WANN) la cui missione è quella di creare una nuova generazione di scrittori e pensatori palestinesi, in grado di apportare un cambiamento profondo alla causa palestinese, attraverso l’eco delle loro parole.

foto di Alessandro Levati

È prepotente e intensa l’unione di due realtà che tentano con entusiasmo e passione di amalgamare in una ricetta ricca i racconti e le testimonianze di chi, con un obiettivo comune, persegue lotte solo fisicamente lontane. L’essere femministe a Gaza, e non solo lì, non si esaurisce nel portare avanti ideali di equità contro la piaga del patriarcato, bensì si espande a macchia d’olio all’interno di un tessuto di resistenza e ideali politici che fanno della collettività e del rispetto, la base stabile sulla quale costruire e sviluppare un’intensa unione, la rivendicazione di diritti negati e di doveri mancati. 

Per facilitare ed aumentare la condivisione, soprattutto a livello personale, per le giornate sono stati ideati ad hoc alcuni workshop che stimolassero uno scambio artistico e psicologico, in forma grafica, musicale e fotografica. I primi due giorni hanno visto protagonista un pubblico esclusivamente femminile che non ha esitato, ribaltando le aspettative pre-partenza, a condividere storie personali di violenza e soprusi. La giornata conclusiva, rivolta ad un pubblico misto, è stata dedicata alla restituzione aperta coinvolgendo nel Game of Privilege sia uomini che donne, un gioco semplice, fatto di piccoli passi che evidenziano grandi differenze. 

L’attiva e coinvolta partecipazione è stato il nostro feedback più ripagante. Guardare, ascoltare e percepire con tutto il corpo la passione nel lavoro che viene svolto dalle attiviste locali e vederne condivisi gli esiti è stato per noi, e per loro, una vittoria, che speriamo possa generare energia di cambiamento. 

Non è facile nella Striscia di Gaza realizzare un evento di questa portata, non è facile nella Striscia di Gaza compiere un qualsiasi passo considerato banale nella vicina Europa. Eppure, la (pre)potenza di più di 200 donne, non solo ha reso realtà quello che era solo un sogno, ma è esplosa in una cassa di risonanza potentissima, generando un’eco che speriamo possa costituire ispirazione per altre donne solo apparentemente silenti. 

foto di Sara Biasci