Bloccare Giorgia Meloni, non i migranti

28 marzo 1997. Venerdì santo. Un blocco navale della marina cerca di arginare gli arrivi dall’Albania. Nave Sibilla, Marina miliare italiana, entra in contatto con una motovedetta, la Kater I Rades, che gli scafisti hanno rubato e riempito di esseri umani che vogliono un futuro.

Nave Sibilla sperona? O la manovra è per dissuadere? Eppure la stazza dei due natanti parla chiaro, qualsiasi manovra sarebbe stata ad alto tasso di rischio. Muoiono in 80, più i venti che rimangono dispersi, cioè morti anche loro. Era il blocco navale del 1997.

Ci si potrebbe fermare qui e dire che la strage del Venerdì santo è una risposta concreta alle mire di Giorgia Meloni, che cerca di scavalcare a destra il lepenista Salvini, per fini squisitamente elettorali.

In quei giorni ero a Brindisi per Radio popolare network. Mi avevano inviato dieci giorni prima, per stare un paio di giorni, poi visto come andavano le cose i giorni sono aumentati. Mi son comprato magliette e mutande, dormivo 4 ore a notte per essere in porto all’alba, la radio mi aveva prenotato un alberghetto di quelli a buon mercato, piano terra e una finestra. Quando avevo cercato di aprirla ho trovato i mattoni, murata.

In porto dopo i primi giorni era arrivato il tir della Rai, con i revox per montare e gli studi per trasmettere. Come ogni buon cronista di Radio popolare mi ero fatto adottare da un inviato della Rai: lui arrivava in porto verso le nove io gli davo il programma di giornata, in cambio potevo ricaricare il cellulare e viaggiare a bordo delle loro auto, la sera poi ero ospite al ristorante. Un ottimo scambio.

Un giorno arriva una nave al largo, chiamano un oggi noto giornalista televisivo. Trasporta decine di migranti mezzi disidratati, sono allo stremo. Lui chiama qualche amico e si fa dare un motoscafo della Gdf, fa fermare la nave perché vuol fare le riprese. Mi infilo su quel motoscafo e salgo a bordo. Lui fa il suo stand up radunando dietro di lui quei poveri disgraziati, io trasmetto in diretta, torniamo.

Quando accade la strage mi precipito in Prefettura. Il Prefetto è a due stanze da me, in una riunione di emergenza. I superstiti sono stati rinchiusi in una caserma, nessuno li può avvicinare.

Il piantone non mi fa passare. È un ragazzo giovane in divisa stirata. Insisto, Nega, insisto ancora e chiedo perché mai non si dovrebbe intervistare chi è sopravvissuto a una tragedia in mare. Non si può. Perché non si può? Perde la pazienza, perché c’è un ordine dj servizio. Figuriamoci! Gli dico, non ci credo e lui tira fuori una circolare con scritto confidenziale sopra. Leggo l’ordine che confina i superstiti come prigionieri. Chiamo il prefetto, non risponde, gli mando un messaggio: ho visto la circolare e mi appresto a raccontarla in onda. Il prefetto apre le porte della caserma. Corro come un matto e arrivo, entro e inizio a intervistare le persone. I racconti coincidono tutti, ci hanno urtato, ci hanno speronato, insomma c’è stato un urto.
la Kater I rades venne recuperata portata a Valona e trasformata in un monumento. Nave Sibilla è andata in pensione ed è stata ceduta alla flotta del Bangladesh.

Di quei giorni ricordo l’umanità delle interviste, persone di ogni estrazione, molte laureate, che scappavano dall’Albania, persone che avrei anche reincontrato diversi anni dopo, integrate, nella mia città.

Allora erano come quelle che vediamo oggi. Sedute per terra, stoccate in posti improbabili, dentro capannoni a schiattare di caldo, con i politici a cercare di amministrare la famosa emergenza e a dare però l’immagine che piace all’elettorato impaurito: erano scappati anche i carcerati da Valona, dove saranno?

Di quei giorni ricordo le navi nel porto con gli alti bordi e la plastica rappresentazione di come potesse essere fatale incontrarle dentro un gommone e anche una motovedetta di piccole dimensioni rispetto a quella stazza di acciaio imbullonato.

Che cosa è un blocco navale?

Uno strumento di morte in più.

Una mossa di marketing politico sulla pelle di chi non conta nulla.

L’ennesima e vecchia scusa di chi non vuole affrontare la realtà.

Il solito e inaccettabile modo di affrontare temi di umanità attraverso la lente del rigore delle leggi e il mercanteggiare nuove regole della fortezza Europa sulla pelle del contatore dei morti.

Non abbiamo bisogno di blocchi navali, ma di rotte sicure e porti attrezzati e soprattutto di corridoi che garantiscano di bloccare l’inferno che a centinaia di migliaia continuano ad affrontare.