Pensioni e reddito di cittadinanza. La Grande Guerra intergenerazionale


“Eh, magari avessi io quello che prende mio zio. Ma ti pare che un pensionato debba portare via tutte quelle risorse?”. Discorsi da bar, ma questa volta non lo sono. Sono la spia della Grande Guerra intergenerazionale che viene cucinata da anni. Quell’immagine retorica che dice che i vecchi rubano le risorse, perché invecchiano di più di una volta, a discapito dei giovani che sono precari, flessibili, disoccupati e neet, o semplicemente malpagati e feriti a morte dai prezzi delle case, anzi delle stanze in affitto.  E nello stesso tempo tutte quelle persone, che hanno un lavoro, che si accaniscono contro l’idea di un reddito di cittadinanza universale, perché si deve fare fatica, “Eh, no scusa, io mi sono fatto un mazzo così”, guadagnarselo il pane e che urlano all’assistenzialismo. 

Ci manca sempre un attore a questo tavolo. Lo Stato. Certo c’è il debito pubblico, certo, c’è l’evasione fiscale che ruba e drena risorse, i conti non tornano rispetto alle stime dell’Istat per il futuro, quando avremo sempre più vecchi, anche se non sappiamo quanti avranno pensioni degne.
Ci sarà meno gente, e più in là con l’età. L’aspettativa di vita continuerà a salire, arrivando a 88 anni per chi nascerà nel 2070, circa quattro anni in più rispetto a chi nasce oggi in Italia. Questo aspetto, combinato con il calo delle nascite, porterà il rapporto tra giovani e anziani a variare: nel 2050 per ogni giovane ci saranno tre anziani e le persone in età lavorativa scenderanno in trent’anni dal 63,8 per cento al 53,3 per cento del totale della popolazione, ponendo inevitabilmente il welfare sotto pressione. (Fonte: Istat). 

Certo, ci sono sempre più contratti di previdenza privata, per assicurarsi un cuscinetto di stabilità. E certo, ai governi reazionari togliere il muscolare rapporto fatica lavoro dà fastidio, quindi per agevolare chi non ha soldi ed è povero ci si inventano piccole misure inique, ma sicuramente ben accette. 

Allora la domanda è piuttosto semplice: come amministratore pubblico ho a disposizione previsioni complesse e attendibili, non certo sul breve periodo, ma sul medio e lungo. 
Ci sono le crisi internazionali e di sistema, spesso esasperate da fenomeni che si vedono arrivare, ma difficilmente temporizzabili, come una guerra a pochi chilometri, o il crollo di sistemi interi, salvataggio di sistemi creditizi drogati, sempre sulle spalle della comunità.

E però, come è possibile che non si riesca a capire che se la tendenza è quella di un allungamento della vita si devono bilanciare le voci di spesa? Adeguare o creare nuove condizioni di benessere che siano di aiuto a chi invecchia? E che siano di investimento per i giovani? E come è possibile sottrarsi all’inevitabile tema di un reddito universale, e che ciascuno sia libero di usarlo come crede, specie quando ci avviamo verso una robotizzazione della meccanica che lascerà tanti e tante di noi semplicemente senza lavoro. E infine: come è possibile pensare che l’età anziana e poi fragile non abbia bisogno di un ripensamento su ampia scala, dall’urbanistica, all’architettura degli spazi, ai servizi, potenziando questa trasformazione senza lasciarla a soggetti di mercato che troppo spesso speculano sulla vecchiaia?

E il bilancio della Difesa, tutti i soldi che buttiamo in armamenti: non c’è forse lì dentro un tesoro cui attingere da redistribuire rispetto a chi si affaccia al mondo del lavoro?
Non è forse vero che, d’altra parte, se la sanità diventa personalizzata potremmo riuscire a tagliare grazie alla prevenzione, tante spese mediche? E il modello delle convenzioni con la sanità privata convengono, oppure sarebbe meglio sviluppare dal lato pubblico quei servizi che oggi scivolano in là nelle agende e che spingono i pazienti verso il privato?

Nulla. Tutto viene dirottato verso un conflitto intergenerazionale dove non si capisce che chi ha maturato una pensione lo ha fatto sottraendo dai suoi guadagni una parte di contributi per il sistema pensionistico. Non possiamo inventarci nuovi sistemi di permanenza premiale al lavoro, a favore di una diminuzione della spesa pensionistica? E se lavorare meno, lavorare tutti diventerà in futuro addirittura impossibile in certi settori, perché non iniziare a pensare alla questione del reddito universale come un’opzione che sarà esercitata in piena libertà?

Possibile che si sia sempre a riproporre lo stesso scontro. I giovani allargano le braccia e dicono, eh ma secondo te avrò la pensione? Sconsolati. E si trovano di fronte a un mondo asfittico, con una transizione ecologica che chiede di fare presto e una proiezione personale che getta nello sconforto, con affitti drammatici nelle grandi città, carrelli sempre più vuoti a parità di spesa. 
E un futuro dove anche se versano i contributi, rischiano di trovare le casse vuote. E un dibattito sul tema lavoro e reddito che li vede quasi sempre condannati al vivere per lavorare. 

Chi lavora o ha lavorato guadagnandosi la pensione, spesso non ce la fa a esimersi dal rimbrotto della condivisione della fatica, infastidito dalle nuove possibilità di avere comunque un reddito anche senza un lavoro. Si aggiunge, cioè, un elemento classista, con buona pace di chi sostiene che le classi non esistano più. Gli sfaticati, quelli che non hanno voglia di lavorare. C’è una sorta di rivincita e di egoismo che si fonda sull’eccessiva valorizzazione del lavorare. 
Lavoro come dato identitario. Se non lavori non hai identità. Non esisti. Se chiedi di poter vivere con un reddito anche senza essere obbligato a lavorare diventi uno sfruttatore di risorse, diventi un parassita, diventi uno che ‘ai miei tempi…’ quando ci si spaccava la schiena.
Anche lì si abbatte la scure del Governo, eliminando il reddito di cittadinanza, per fare cassa.

Cerchiamo di non costruire futuri al ribasso. Non è un tanto peggio, tanto meglio. Dobbiamo essere tutti portati al tanto meglio, senza esclusioni. Altrimenti, scusate: ma a cosa servono le istituzioni che reggono la nostra comunità?