Ci sono tracce? O sento solo io i perduti, gli stranieri,

i prigionieri tempestati di spine

Antonella Anedda, Historiae

Il filosofo Theodor Adorno sosteneva che non fosse più possibile scrivere poesia dopo Auschwitz. Ogni grande poeta del secondo Novecento ha raccolto la sua sfida, dimostrando che l’unica poesia non più possibile fosse quella della mera bellezza – di una bellezza astratta e lontana dal mondo. Una poesia che confonda la contemplazione con la distrazione, che distolga lo sguardo dal male o, peggio, che edulcori il male. Di tutto questo non abbiamo certamente bisogno. Abbiamo invece bisogno di uno sguardo chiaro tra le macerie, di una lingua esatta e senza retorica che sappia orientarci in un presente sconquassato. Dì la verità ma dilla obliqua, scriveva Emily Dickinson. E proprio su questo sguardo obliquo, sulla capacità di nominare l’orrore ma anche di trapassarlo, nel senso letterale di passare attraverso, di traghettarci oltre, si fonda la poesia di Antonella Anedda.

Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.

Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

Pubblicata nel 1999, al termine di quel «novecento cane-lupo» che credevamo di esserci lasciati alle spalle, Notti di pace occidentale è la terza raccolta di Anedda, e prende avvio proprio da questa cruda consapevolezza: la poesia non è innocente. Le guerre infuriano lontane dai nostri confini, non scuotono dalle fondamenta la nostra «pace occidentale», ma la violenza si annida anche nella lingua che possediamo, una lingua precaria e manchevole, inadatta a contenere l’orrore che la Storia getta sulle vite.

Possiamo scrivere solo prendendo atto di questa manchevolezza, ammettendo che le parole non ci salveranno, possiamo scrivere solo posando gli occhi su un paesaggio desolato, da cui estrarre «pochi sterpi di frasi / stretti a una lingua usuale». Una lingua, cioè, il più possibile aderente alle cose quotidiane.

foto di Francesco Pittorru

Questa è la cucina alle sette

questo il polso immerso nel lavabo

e il buio sul balcone che dice

la distanza del giorno.

Aspetto che scaldi il tuo latte

seguo la brina sul ferro dei balconi

e la donna trascina la sua busta nel vento.

La cucina, il lavabo, la brina che nelle mattine d’inverno si posa sui balconi: se esiste poesia non sta nell’abbondanza ma in una povertà quasi francescana della lingua, se esiste poesia non sta in un sublime rarefatto ma proprio qui, in questo punto del mondo che ci è dato ricoprire. Notti di pace occidentale conserva qualcosa del diario, dell’appunto quotidiano, come se scrivere fosse anzitutto tracciare coordinate minime della propria presenza – non per magnificarsi, ma al contrario per privarsi di ogni importanza, sapersi miseri rispetto al resto. Proprio attraverso questa spoliazione sono possibili attimi di consapevolezza. Così infatti prosegue la poesia, intitolata semplicemente XII:

                  Tutto si perde

tutto viene scagliato lontano.

Il mondo si trasforma in polvere

in quella sabbia che i condannati vedono

prima di colpirla con la nuca.

Di nuovo convogli a oriente, tronchi

che spezzano le ruote sui confini

di nuovo gente in fila

con sassi nelle tasche contro il vento.

Di nuovo convogli a oriente, di nuovo vite scalzate via dalle proprie case. L’orrore compare sulla pagina senza speciale trasfigurazione, spogliato di tutto ciò che lo renderebbe intollerabile: basta la parola «convogli» a evocare i perseguitati di ogni epoca, diretti verso destinazioni indicibili. L’immagine dei «sassi nelle tasche contro il vento», invece, ci parla di accortezze minime, che non basteranno a garantire protezione.

Noi spettatori occidentali non impazziamo di pena, piuttosto assistiamo, come scrive Anedda in un altro passo della poesia, «né ardenti né freddi. Fermi davanti alle vetrine»: il pensiero che rivolgiamo agli esuli convive accanto alle preoccupazioni quotidiane, alla brina che si posa sul balcone.

Chi crede che la letteratura non possa occuparsi di guerre, di migrazioni, di naufragi, chi crede che dall’ostinata ricerca del bene possa nascere solo cattiva letteratura, confonde il bene con il buonismo: interrogarsi sinceramente sul bene non ha nulla di consolatorio, vuol dire, anzi, fare i conti con tutte le volte in cui noi il bene lo rifuggiamo, prendere atto della nostra quotidiana impotenza. «Perché è vero» scrive Anedda in Tre stazioni, una raccolta di prose brevi e fulminanti, «il bene è profondo ma il bene è fragile. A differenza del male sfuma lentamente tra i secoli, a differenza del male ha nostalgia anche di una sola creatura.»

foto di Francesco Pittorru

C’è stato un momento in cui ho creduto di non essere più in grado non solo di scrivere, ma anche di guardare, prestare attenzione alle cose, ricevere il mondo come avevo sempre fatto. Un’ansia di perfezione si era radicata in me e avevo lasciato che mi prosciugasse, dopo tutto l’accanimento restavano solo scheletri di intenzioni, frasi o gesti minimi come vetri frantumati sotto il sole.

Davvero somigliavo a quel paesaggio dell’entroterra sardo tanto caro ad Anedda, quella steppa arida e senza riparo che per lei rappresenta un amato luogo d’infanzia, nonché metafora sorgiva della poesia («pochi sterpi di frasi»), mentre per me, l’estate in cui l’ho percorsa, rappresentava la concretizzazione del fantasma che ero stata, un paesaggio che non può ospitare la vita perché manca un terreno fertile in cui seminarla.

Residenze invernali è la prima raccolta poetica di Anedda, ed è la più difficile, se con difficoltà intendiamo un testo che non si schiude immediatamente a un’interpretazione. Dalle pagine intuiamo che l’autrice si muove tra le stanze di un ospedale, forse per assistere una persona cara, ma nulla è apertamente dichiarato: il dolore è lasciato affondare, mentre nei versi emergono scaglie che spetta al lettore ricomporre – «corridoi vuoti in cui scende una pace d’acquario», «luci azzurre in alto e in basso», «il rullio dei letti / spostati dalle braccia dei vivi». È stata anche questa voce così sobria, così esigente a sollevarmi (non so usare un’altra immagine: davvero se glielo concediamo la poesia ci priva di pesi inutili): i versi non si schiudevano e allora dovevo essere io a sforzarmi, a cercare un’apertura. Alle persone che mi confessano di non capire la poesia, di provare solo fatica nel leggerla, dico che non c’è colpa né ignoranza in questa fatica, che l’amore per la poesia, o per la letteratura in generale, è solo uno fra i tanti che può toccarci in sorte.

Ma a queste persone dico anche: non è poi in questa fatica, in questo sforzo a cui siamo chiamati che risiede la ricchezza della poesia? Ponendo domande rispetto alle quali non ci sentiamo all’altezza, aprendo uno scarto tra le persone che siamo e quelle che potremmo essere, la poesia, quando è davvero grande, ci obbliga a uscire dal nostro buio ripiegamento. Credevo di non avere più nulla da dare: in quel momento è arrivata la poesia.

*

Non parlava con me il mio paese

ora vuole un canto

lunghissimo, di gola – che si accordi

con fessure di terra e tremi nelle cose.

Non parlava con me il mio paese. Ora di colpo

mi ha infiammato come un fuoco, semplice di bosco,

toccando appena il fuscello della lingua, lasciando che il

palato

ardesse a cupola nel corpo.

Mi ha dato tempo e notte.

La voce si è levata prodigiosa,

dimessa, nel secolo che cresce sul millennio

La raccolta Nomi distanti potrebbe sembrare un astro minore nelle opere di Antonella Anedda, non tanto per la qualità delle poesie che raccoglie, quanto per l’operazione che le ha fatte affiorare: si tratta infatti di traduzioni infedeli e personalissime da poeti come Marina Cvetaeva, Emily Brontë, Zbigniew Herbert, Osip Mandel’štam e Philippe Jaccottet.

Come chiarisce Anedda, in un’introduzione che ha, al pari di tutte le sue prose, un passo agile e pieno d’incanto, queste «variazioni» non nascono dall’insoddisfazione verso traduzioni già esistenti, anzi: «Ciascuna di queste liriche» scrive, «è stata decifrata, tradotta, portata fino alla lettura. Meravigliosamente resa. Ma ecco che da questa resa, dalle grate, dalle valve della parola sfuggiva ancora qualcosa, un seme ulteriore era maturato per confermare la vita del testo.»

A questa vita del testo Anedda ha prestato la propria voce, come se fosse necessario ripercorrere un tragitto tracciato da altri per raggiungere spazi che altrimenti sarebbero rimasti inesplorati. Nomi distanti potrebbe allora sembrarci una raccolta di esercizi solitari, eppure contiene una grande lezione di umiltà, ci mostra la poesia non come il frutto di un’intimità chiusa e reclinata su sé stessa, piuttosto come qualcosa che si riceve – un «fuoco», come scrive Anedda, variando un verso di Mandel’štam, innescato dall’incontro tra il mondo e il «fuscello della lingua».

Quest’apertura verso una dimensione collettiva si compie definitivamente con Historiae, pubblicato nel 2018. Il debito verso Tacito è impresso, oltre che nel titolo, nella voce sobria e al tempo stesso appassionata che attraversa la raccolta – «Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri / il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti / l’assenza o quasi di aggettivi».

A differenza delle Historiae compilate dall’autore romano, però, le poesie di Anedda non recano traccia solo delle vicende umane: un lutto personale  si mescola ai silenziosi mutamenti naturali («è solo un altro lutto – mi dicevo – inosservato / nel mondo che s’intreccia al gelo»), gli «sciami d’api pronti a fendere l’estate» convivono accanto a «gas che collidono, tempeste, scontro di comete», e i naufragi nel Mediterraneo sono visti attraverso un tempo più largo, dove la morte è solo una diversa pulsazione della vita – «mi chiedo se sulla ossa crescerà il corallo / e cosa ne sarà del sangue dentro il sale».

In questa idea di poesia come tentativo di ascolto di un battito collettivo, viene in mente la filosofa e mistica francese Simone Weil, quando scriveva che «ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale.» I versi di Anedda sono profondamente politici non solo o non tanto perché citano i naufragi, le immagini di «visi morti e morti vivi» che scorrono sui nostri schermi, o «gli schiavi / intenti a costruire le nostre piramidi di beni»: i versi di Anedda sono profondamente politici perché scavano, con un’accuratezza implacabile, fino al nocciolo impersonale che risiede in ogni creatura.

È vero, la poesia non può nulla contro i mali del mondo. Può però mostrarci frammenti di quel bene che così spesso tradiamo, lo spazio che potremmo abitare se ci spogliassimo dalle preoccupazioni quotidiane, come un «fuoco là nelle rovine» che da sempre ci orienta, attorno al quale potremo sempre radunarci.

Una notte abbiamo fatto un fuoco là nelle rovine

soffiando sui picchi delle braci

credendoci a un passo dalla luce

oltre quel minimo sostare uno nell’altra,

provando inutilmente a scostare la legge dell’essere vicini e poi perduti.

foto di Francesco Pittorru