In via del Molo a Genova, tra porta Siberia e il Porto Antico, sulla chiesa di San Marco c’è una lapide raffigurante il Leone Marciano di Venezia. Originariamente collocato sulla Porta Marina di Pola venne trafugato dalle milizie genovesi, leggiamo: “Questa lapide nella quale è raffigurato il simbolo di San Marco fu trasferita dalla città di Pola presa dai nostri il giorno 14 gennaio 1380”.

Da seicentoquarant’anni quel Leone è lì, a ricordarci quando il Mediterraneo era il centro del mondo e delle guerre.

Quasi cent’anni prima (nel 1298), a seguito della vittoriosa battaglia di Korcula contro i veneziani, i genovesi imprigionarono Marco Polo nel carcere di Palazzo San Giorgio in Piazza Caricamento.

Qua dettò al suo compagno di cella Il Milione, resoconto dei suoi ventiquattro anni passati in Oriente tra Cina e Asia Centrale, di cui diciassette lavorando alla corte di Kublai Khan, condottiero mongolo e nipote di Gengis Khan.

Contemporaneamente a queste vicende e fino al 1475, la Repubblica di Genova colonizzò il Mar Nero e il Mar d’Azov: possedeva fondaci a Trebisonda, l’intera città di Pera situata nel Corno d’Oro, oggi chiamata Beyoğlu (distretto di Istambul) che vede in Galata il suo nucleo storico. Poi ancora, fondaci a Costanza, la Bessarabia, Ginestra (oggi parte di Odessa) e poi la Crimea: Jalta, Sebastianopoli, Feodosija e Sudak. Poco più a est Tana (odierna Azov), sulla foce del Don, che divenne il punto d’incontro commerciale tra la Repubblica di Genova e l’orda d’oro del mondo mongolo-tartaro.

Molto probabilmente già a Tana avvenne l’incontro tra Marco Polo e i genovesi, mi piace pensarla così sulla scia della teoria dei sei gradi di separazione.

Sul mio taccuino degli appunti ho segnato questa frase letta da qualche parte, ma non ho annotato dove: “Genova ha il disordine, la smania d’invadere e di straripare con l’attiva pigrizia di tutti gli Orienti”.

Quando al mattino esco di casa e percorro in discesa la mattonata, per una decina di passi una finestra di mare si apre davanti a me e in lontananza vedo il centro cittadino: la basilica di Carignano e il centro storico spesso sono illuminati da una luce calda e stellare, come se il mare rifrangesse tutta la potenza del sole rendendo la città inafferrabile.

È un’immagine cinematografica, leggermente tossica e distorta quanto basta da far risultare il centro storico la casba di un luogo qualunque sul confine orientale e la basilica una moschea con i due minareti che si affacciano su un mare lontano ed onirico.

Che sono iniziati i bombardamenti lo leggo mentre sto scrivendo questa quarta Sciamàdda. In questo pezzo avrei voluto continuare ricordando l’anniversario della dipartita di Predrag Matvejević (quanto servirebbe a tutti noi, ora, la sua intelligenza e il suo sapere), morto a febbraio di cinque anni fa da solo in una clinica psichiatrica a Zagabria.

In seguito mi sarebbe piaciuto dilungarmi sulla vita di Greta Ferušić, prima donna a laurearsi all’Università di Architettura di Sarajevo e unica persona al mondo ad essere sopravvissuta ad Auschwitz e all’Assedio.

Avrei voluto consigliare una struggente canzone d’amore che ho ascoltato nell’ultimo e bellissimo film di Mathieu Amalric, avrei voluto fare un ready-made di Litania di Caproni, invece al netto della situazione riesco solamente a scrivere: l’infamia dei bombardamenti russi (non esiste infamia peggiore), perché la Nato? (perché?), la viltà europea (quale novità, del resto).

In mezzo a tutto questo le prime centinaia di civili morti, o meglio, una prima parte delle prossime migliaia. Nemmeno gli spiriti dei marinai genovesi inabissati sui fondali del Mar Nero riescono più a capacitarsi di tutto questo inferno. Ci aspettano anni bui, difficili e mesti.

Un ciclo siamo macellati
E un ciclo siamo macellai
Un ciclo riempiamo gli arsenali
E un ciclo riempiamo i granai