Il tabù, un divieto che in pubblicità diventa opportunità

Una definizione che ho sempre apprezzato della comunicazione pubblicitaria è quella creata agli inizi del ‘900 dall’agenzia McCann-Erick- son:

The truth well told.

Oltre alla perfetta sintesi del rapporto virtuoso tra contenuto e forma, rivendica uno sguardo etico anche per chi deve informare sulle caratteristiche di un prodotto o i valori di un’azienda, invitando a rifuggire da manipolazioni e alterazioni della realtà. Un richiamo al senso di responsabilità oggi più che mai attuale, in un contesto in cui la comunicazione è sempre più pervasiva e persuasiva. In questa dinamica tra verità ed efficacia, come si inseriscono i tabù? Come un’opportunità. Considerando il tabù come una convenzione culturale affermata da una maggioranza, potrebbe comunque esserci una minoranza per cui quel vincolo è ritenuto meno stringente, se non irrilevante. Quella minoranza, usando un termine di marketing, è un target: un insieme di persone sensibili a un messaggio capace, in questo caso, di mettere in discussione il tabù che loro non sentono più come tale.

Prendiamo per esempio il rapporto tra sacro e profano, dove per molto tempo è stato impensabile che la comunicazione commerciale potesse avere parola. Poi, negli anni ’70, è arrivata la celebre campagna

“Non avrai altro jeans all’infuori di me”

dei Jeans Jesus, un prodotto programmaticamente provocatorio fin dal nome del brand. Era una campagna che intercettava un cambiamento culturale in atto e si rivolgeva a una nuova generazione più laica attraverso l’irriverente abbattimento del tabù del religiosamente corretto. Il messaggio colse nel segno e suscitò non solo la reazione censoria dell’opinione pubblica conservatrice, ma anche l’interesse di intellettuali attenti ai segnali di cambiamento come Pier Paolo Pasolini.