Come stanno le donne che lavorano nelle organizzazioni umanitarie internazionali? Tra precarietà, problemi strutturali e narrazione tossica della performance, non se la passano bene

Siamo C.L. e I.S. vi raccontiamo il nostro punto di vista, da professioniste italiane del settore. Per proteggerci, comprenderete l’uso di uno pseudonimo. Se voleste contattarci, la Redazione può mettervi in contatto con noi.

Questo articolo è frutto di uno scambio epistolare digitale. Lo abbiamo scritto scambiandoci dei vocali di WhatsApp, tra una spesa, una call, un report, una missione, e anche un giro di Covid-19. Per noi non è un esercizio nuovo, sono anni che facciamo fatica a trovare il tempo per vederci o per chiamarci, ed usiamo i vocali per mandare avanti la nostra narrazione e dirci come stiamo. Soprattutto durante la pandemia, che ci ha visto diventare, tra le altre cose e forme, anche e soprattutto madri.

Per questo articolo abbiamo deciso di mandare avanti il nostro sistema di ascolto e mutuo aiuto. Abbiamo raccontato al nostro telefono le cose che non possiamo dire a voce alta, per il lavoro che facciamo, per il ruolo che ricopriamo, e per la paura di ammettere a noi stesse che c’è un problema dove abbiamo lavorato, o lavoriamo.

Il processo non è stato lineare: a volte liberatorio, a volte doloroso. Prendere coscienza di certe dinamiche, personali e collettive, nelle quali ci siamo trovate in molti momenti, ci ha colte di sorpresa. Possibile che noi professioniste in un settore dove si fa del benessere delle persone, della cura, della “salvezza” del pianeta una missione, non fossimo al riparo da certe dinamiche tossiche nel nostro lavoro?

Eppure, la protezione è il cuore di quello che facciamo. Protezione dei diritti delle altre persone, quelle che per guerre, pandemie, lati sbagliati del mondo in cui nascere, o tutto insieme, partono già tanti passi indietro rispetto a noi. Quelle per cui una vaccinazione, una visita ginecologica dopo una violenza di genere, un documento di identità, sono azioni che salvano la vita e la ridirezionano verso un nuovo corso.

In questi anni la pandemia ci ha messo di fronte a molte sfide e ha esacerbato numerose dinamiche tossiche dell’essere sempre connessi, ma ci ha offerto anche delle opportunità di riflessione, lontane fisicamente dai nostri uffici. Lavorando da casa abbiamo ritrovato il nostro riparo (parola che ritorna) e la nostra voce, lontane da certe logiche e sguardi da occhio del “big brother” – che ti vede qualunque cosa tu dica o faccia.

In questo riparo dobbiamo molto a persone, soprattutto donne, che creano contenuti digitali. Abbiamo ascoltato podcast dove si racconta il tema della società della performance e della salute mentale. Seguiamo femministe digitali che creano contenuti dove riflettono sulle logiche della nostra società patriarcale. Abbiamo fatto terapia, abbiamo fatto coaching, abbiamo seguito corsi di scrittura, tutto online. Abbiamo chiesto e trovato aiuto, sia nelle nostre reti sociali di riferimento, che tra professionist*.

Siamo uscite da un certo livello di isolamento, ci siamo confrontate e, in parte, liberate.

Chi ci lavora lo sa: le organizzazioni internazionali sono delle bolle nelle quali si perde un po’ il contatto con chi sta fuori. Per la salute mentale questa non è una buona premessa, nonostante sia “venduta” e percepita come un’élite, di fatto di bolla si tratta, e certe dinamiche manipolatorie possono essere sottili, ma efficaci in questi contesti.

Con questo articolo vorremmo far uscire dal nostro WhatsApp il nostro flusso di coscienza digitale ed estrarre in maniera, speriamo, fruibile, alcune considerazioni. Condividerle con chi, in situazioni simili alle nostre, vive momenti di difficoltà e solitudine. Per darvi la certezza che no, non siete (non siamo) sole, né tantomeno pazze. E che, per salvarsi insieme, bisogna prima imparare a salvarsi da sole e chiedere aiuto.

L’articolo è pensato per chi ci lavora da anni, ma soprattutto per chi ci lavora da poco, in questo campo.
Con queste parole vogliamo raccontarvi come, quando si cammina sulla “strada” verso una carriera internazionale, ci siano molti campanelli di allarme a cui prestare attenzione, soprattutto per le donne. Rischi invisibili di cui si parla poco. Se non si ha coscienza di molte dinamiche (strutturali, culturali, di genere) è difficile vederli e si continua ad andare avanti correndo una serie di rischi che potrebbero impattare negativamente sulla salute mentale.