Ogni volta che scorrono le foto di Salvador Allende si accendono parole ricorrenti. Una è Unità popolare, la formazione con la quale andò al governo. L’altra è Presidente, la P maiuscola. O le parole di quella frase, nell’ultimo discorso trasmesso da Radio Magallanes, quando con voce profetica e ispirata disse dalla Moneda bombardata: «La historia es nuestra, y la hacen los pueblos».

Cinquant’anni dopo c’è in questa figura di medico borghese e massone, socialista e rivoluzionario ancora il fascino di chi ha combattuto eroicamente un nemico più grande e forte di lui, un mostro golpista sorretto dagli Stati Uniti, che alla fine ha vinto e nello stesso tempo ha perso.

Le ultime ore di Allende sono un diario, una cronaca di gesti resistenti. Allende, morendo si è consegnato alla storia, così come Victor Jara, il cantautore assassinato è immortale nella sua musica e voce e così per tanti e iconici eroi del Novecento, Che Guevara fra i primi, che furono e restano eroi non perché leader, ma perché espressione di un sogno e di una battaglia comune. Tutto il contrario della sindrome del leader che viviamo da troppi decenni a tutte le latitudini; in quegli anni fu storicamente più una funzione paradigmatica e di trascinamento, di ispirazione di coerenza di vita – ognuno con in suoi difetti e i suoi errori- bandiere, stendardi con cui affrontare la propria lotta quotidiana dentro un immaginario collettivo che parlava e ci parla ancora di un mondo diverso, relazioni diverse, attenzioni agli umili, la parola eguaglianza come necessità di un cambiamento. Oggi, senza quella spinta, ci rimangono solo effigi o santini.

Allende, i suoi fedelissimi del Mir, i e le desaparecidos, sono e sono stati per molte generazioni esempio di persone intoccabili (proprio loro che furono straziati in vita), circondati da un sentimento di rispetto che ha ispirato scelte personali e modelli valoriali.

Se fossimo solo dei romantici o poeti potremmo dire che i Chicago Boys, gli economisti capitalisti che vollero il laboratorio cileno e che stravolsero le democrazie del Cono Sur, almeno in questo, hanno perso. E lo potremmo dire con gli occhiali europei di chi ha conosciuto molti che da quei Paesi fuggirono e vennero accolti: Cile, Argentina, Brasile, Uruguay. E quanto hanno dato questi esuli alla nostra cultura politica progressista.

Lo potremmo anche riaffermare pensando al novembre del 2004, quando a Mar de Plata Bush veniva sconfitto e il suo progetto per un trattato di libero commercio nelle Americhe – ALCA – affossato. Allora ci pensarono i presidenti progressisti eletti democraticamente, Morales, Kirchner, Chavez, con un entusiasta e scatenato Diego Maradona, a guidare un treno, l’Expreso del Alba, chiamato così per l’unione dei Paesi bolivariani, a sotterrare il tentativo statunitense di fare sacco del commercio nel contintente. Un giorno un intervistato mi disse: Come spiegarti l’Alca? Come far entrare in maniera legale una volpe dentro il pollaio. Come vuoi che finisca?

Per essere più pragmatici e meno romantici il laboratorio cileno purtroppo ha lasciato segni e cicatrici, una forte divisione sociale, una destra ancora capace di non ammettere il disastro della dittatura e incapace di firmare, nel cinquantenario, una dichiarazione piuttosto generica che Gabriel Boric, l’attuale presidente, aveva messo sul tavolo.

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Il presidente cileno Gabriel Boric, che ha deluso tanti che in un primo momento lo disegnavano come un degno erede di Allende, deve governare un paese complesso, non pacificato, che nominalmente ha fatto uno scarto, ma dove comunque la ferita è ancora sanguinante, se non per la memoria, per le condizioni di vita. I sondaggi contemporanei ci dicono che un terzo della popolazione giustifica la dittatura, un dato in crescita rispetto ai valori marginali che aveva negli scorsi ani.

Ricordare i 50 anni dal bombardamento, in quell’11 settembre cileno che tenne intere fabbriche italiane con l’orecchio teso alle radio, con la solidarietà, l’accoglienza, ma anche la vergogna poi dei rapporti piduisti con l’altro Golpe di lì a poco in Argentina, 1976, ha un significato sempre forte ed esemplare. Perché rivedere documentari o rileggere libri i portanti e di inchiesta su quei giorni è quasi doveroso, soprattutto per chi è troppo giovane per non avere memoria delle diverse tappe della storia del Cile. Perché ripensare a come decine e decine di migliaia di desaparecidos vennero uccisi nel silenzio della diplomazia o per i giochi della politica fa ancora accapponare la pelle. E ci dà possibili vie di risposta alle domande che ci facciamo sulle guerre contemporanee e le violazioni dei diritti.

Tanti anni fa, qui sulla pagine di Q Code pubblicammo uno speciale con filmati, audio, foto.
Riproponiamo la traduzione dell’ultimo discorso, il Presidente con l’elmetto e la giacca, il suo Ak 47, un dono di Fidel Castro, altra personalità di un Novecento che propose ai movimenti rivoluzionari storie esaltanti e biografie vere che sembravano scritte dai grandi retori della letteratura latinoamericana.

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Allende e il governo di Unità popolare che vuole trasformare le politiche per i lavoratori, grandi personalità che si sono giocate la vita per sovvertire le regole e vivere la rivoluzione nell’immaginario dell’uguaglianza, troppo spesso ahimé tradito dalla debolezza umana quando si trasforma in potere. Oggi ripensare a quegli anni è come affrontare un lungo viaggio in un tempo che è stravolto da velocità e connessioni diverse. Da milioni di soltudini, troppo spesso egoistiche.

Ma quel tradimento infame, quell’invasione militare, Usa mandanti a volto scoperto, non finisce mai di generare sdegno e ripulsa e di far apprezzare ogni singola parola dei grandi discorsi di un uomo borghese, che aveva come tratto forse quello che oggi ci manca e che per questo rispettiamo ancora di più: la coerenza.

Coerente fino all’ultimo, fino all’estremo. Oggi vale la pena ricordare le decine di migliaia di morti e torturati, assassinati che furono vittime. L’11 settembre cileno è una lezione di storia che descrive rapporti di forza ancora e purtroppo attuali,; è cambiata solo la coreografia mediatica. Ci rimangono quegli occhiali dalla spessa montatura, spaccati, a simboleggiare uno sguardo che si è voluto accecare, gli occhiali del Presidente. La storia è nostra, e la fanno i popoli. Presidente!