uando salta la coerenza fra le parole che si dicono e le azioni che si compiono si entra dentro la costruzione di una realtà virtuale e pericolosa. Se nella mappa del mondo esistono Paesi che non rispettano quei diritti umani che la diplomazia internazionale non solo sponsorizza, ma dovrebbe anche difendere, di cosa mai ci vogliamo stupire quando riappare con forza la parola guerra?
Oggi siamo con gli occhi puntati sull’Ucraina e l’invasione della Russia, in spregio a ogni norma del diritto internazionale. Volano le parole che spaventano, quasi in un macabro gioco a chi la spara più grossa. I potenti, certo nella guerra della dichiaratia, ma soprattutto giornali, commentatori e analisti. Da ieri in quattro trasmissioni captate con la coda dell’orecchio eravamo praticamente arrivati al day after post-atomico. Per carità, viste le intelligenze sullo scacchiere meglio non avventurarsi in pronostici, ma spargere terrore insieme alla tristezza delle immagini che affollano i social è da irresponsabili.
Torniamo seri, che il dolore si sta spargendo ovviamente fra civili, come al solito, e in questo gioco demente di un fallocratico presidente che evoca la denazifisticazione come se fossimo tornati indietro di ottant’anni.
Francesco Vignarca è il coordinatore della Campagna contro le armi ed è un lobbista della pace. Leggere in queste ore i suoi tweet dice tutto.
Il concetto chiave è l’ipocrisia.
L’ipocrisia di chi evoca la Storia riscrivendone le realtà per attaccare.
L’ipocrisia di chi dice di fare diplomazia, ma in realtà ci arriva sempre troppo tardi.
L’ipocrisia di continuare ad accettare di riconoscere le dittature, o di tollerarle, soprattutto quando controllano i rubinetti energetici.
L’ipocrisia di chi chiede dove stanno i pacifisti.
Ma dove volete che siano. Sono esattamente dov’erano in tutte le altre guerre: soli con le proprie coscienze e un gruppo di imbecilli che dalle colonne dei giornali inizia a sputare sentenze del perché o per come non ci siano le manifestazioni in piazza.
Cerchiamo di capirci: nessuna guerra è mai stata fermata dalla piazza negli ultimi decenni, non siamo ai tempi del Vietnam, per l’Iraq scendemmo per le strade in milioni, non ascoltò nessuno. Il problema non è mettere di nuovo una bandiera colorata alla finestra, non è ripetere i gesti che sono stati compiuti anche in passato, va sempre bene manifestare, le piazze russe di ieri sono confortanti, e però il problema è affrontare un’evoluzione necessaria.
Come facciamo a spiegarci l’esistenza di tutta questa diplomazia nei palazzi di vetro che non serve a nulla? Come facciamo a spiegarci trattati votati dalla comunità internazionale e disattesi o rimandati nei parlamenti nazionali in ratifica? Come facciamo a tollerare un giorno di più che questa Repubblica compri e venda armi, cioè il profitto dal costruire e vendere strumenti di morte, di guerra e di distruzione, che vengono passati per oggetti di difesa?
Cosa ci azzecca con l’Ucraina? Tutto. Il punto non può essere solo un profilo psichiatrico di chi siede al Cremlino, o di chi siede alla Casa Bianca – che a imperialismo qui si gioca a chi sputa più lontano-. Il punto è chiedersi cosa dobbiamo fare per avere organismi efficienti, che abbiano poteri effettivi sulle controversie. Dobbiamo passare ancora da investimenti, finanza, credito. Se in un Paese c’è una dittatura e una situazione di sistematica violazione dei diritti umani le banche di quel Paese non devono fare affari con quella realtà. Unicredit, Bancaintesa, oltre 25 miliardi di esposizione con Mosca, giusto per dire. (25,3 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono quasi 6 miliardi di garanzie: crediti vantati dagli istituti italiani verso aziende e gruppi russi, più tutta una serie di operazioni a sostegno dello scambio commerciale con Mosca, specialmente su materie prime, senza dimenticare i prestiti ai clienti privati. Dato 2021 Banca dei regolamenti internazionali Bri)
È difficile? Non lo si mette in dubbio, ma è l’unica strada. Un diritto non viene calpestato a metà.
La repressione putiniana delle opposizioni, degli omosessuali, della libertà di espressione? Sanzioni, divieti. Ma subito! Non ci dà l’energia, penseranno molti; giusto, e allora perché non costruire un mercato dell’energia che ci permetta di non essere dipendenti da qualcuno fino a questo punto? Siamo il Paese del sole, ci vogliamo davvero scommettere?
Torniamo in Ucraina. Le prime foto che circolano sui social. Due fidanzati, gli occhi di lei si vedono appena, ma trasmettono la disperazione angosciante di un futuro che non si vede più di colpo, anche dopo giorni di consapevole attesa. Il padre che saluta la bambina, tutti e due in lacrime, le nuvole di fumo, i primi morti. Siamo ricchi di citazioni in queste ore sui social, come se ci confortassero. Da Ghandi a Gino Strada. Sembriamo dei baci Perugina. Ce la faremo un giorno a scrivere che la guerra fa schifo anche senza citare l’eroe buono? Non c’è bisogno di essere speciali, dovrebbe essere normale. E sapete perché abbiamo ancora bisogno delle persone speciali? Perché svettano in visione e coerenza rispetto a chi per mestiere ha le leve dell’amministrare, ma manca di quel buon senso, coerenza e responsabilità. Recuperare la normalità dell’essere pacifisti, significa recuperare la normalità di ridurre al lumicino le spese militari, di riconvertire gli eserciti e l’industria bellica, per esempio.
Dove siamo allora noi pacifici, o pacifisti. Siamo nella quotidianità e speriamo di avere la forza di imporci al potere, qui e a livello internazionale, davvero come una superpotenza. Un’entità capace di incutere addirittura timore nel nome della pace a chi vuole esportare egemonia, voglie di impero, profitti faraonici, risorse energetiche. Prima lo faremo e prima, forse, riusciremo a vedere un cambiamento rispetto al tanto evocato sangue versato del Novecento.
Non è solo andare in piazza, che va sempre bene. È la fatica del quotidiano, quella che sui titoli dei giornaloni non fa rumore. E il costruire una nuova credibilità di un sistema, non solo diplomazia, ma anche il profitto che si ferma davanti alla violazione dei diritti umani. Siamo molti di più noi, a pensarla così: solo che non ci vogliamo credere.