Cinque ore nel cinema dell’ambasciata francese mentre fuori piove a dirotto e quasi ti abitui alla francofonia dei tuoi vicini di seduta. Dei pomeriggi in cui entri in una sala che fuori c’è la luce perpendicolare tipica dei giorni vuoti e stanchi, e quando esci, dopo due proiezioni e decine di spettatori commossi, è tutto a un tratto un buio e deprimente venerdì sera: di quelli in cui la tua giornata finisce prima che quella della città esordisca sulle strade e nei bar.

Almeno lo è nei paraggi del cinema Montaigne, una sala che oggi ospita le proiezioni dell’associazione Metropolis, il collettivo fondato nel 2006 per riempire il vuoto cinematografico lasciato dal conflitto e dalle occupazioni, e che a causa di ulteriori guerre – quella contro Israele, iniziata il giorno dopo la loro prima proiezione, l’11 luglio del 2006 – è stato costretto a riadattarsi, spostandosi da un minuscolo teatro di Hamra alle due sale del Sofil ad Ashrafiyeh, poi nomadizzando, affiancando a progetti educativi per bambini l’ambizione di un archivio nazionale, la Cinematheque Beirut, a che diventi finalmente fisico spazio pubblico.

Quest’anno il festival del cinema documentario è alla sua diciottesima edizione e affianca, allo zitta-e-mangia di Joanna Kaii – la fine dell’innocenza infantile, l’incomunicabilità di un interno domestico, la consolazione memoriale dell’esordiente Chadi Hazime, alle prese con la storia del cinema Hilton, silenzioso spettatore dell’epopea di una nazione mai quieta. Ancora, crudelmente rivela il vuoto lasciato dal fallimento delle rivoluzioni, l’ingenua speranza delle donne egiziane per il governo di Al-Sisi, la loro insicurezza nelle piazze, le molestie quotidiane, la responsabilità di educare i figli maschi al la-tua-libertà-finisce-quando-inizia-quella-della-tua-vicina, l’incapacità di dare risposta al perché si nasca dominate, imprigionate, costantemente spaventate dal passo che segue il proprio andare. E come non esplicitare il riferimento tacito alle loro, di ingenuità, paure e rivoluzioni fallite: quella dell’ottobre 2019, delle strade occupate da slogan contro il confessionalismo, e in un repentino pomeriggio d’agosto svuotate dal terrore – la rivolta sostituita con le schegge e i detriti dell’esplosione al porto della capitale.

Che cosa il cinema di Zakaria Jaber abbia in comune con quello di Abbas Fahdel, cosa accomuni le grida furiose di Samaher Alqadi ai lunghi e misurati silenzi di Maya Abdul-Malak, coi suoi cuori persi e altri sogni di Beirut, al di là della maestria del montaggio, la parca sottigliezza dei dialoghi, è forse questa consapevolezza: che il vuoto che lasciano le illusioni deluse è tanto più amaro di quello dei morti. Perché martirizzare una protesta è seppellire un ideale. E se muore un cinema, se ne farà un museo. Se tramonta un’epoca, la si racconterà ai nipoti con orgogliosa nostalgia e giustificazione del sé sepolto, caricando sulle spalle delle nuove generazioni la responsabilità di curarne i mali. Come ciascuno dei nonni ha fatto con noi: e come un giorno anche noi replicheremo. Ma la frustrazione di un aborto, il rimpianto di dirsi ecco, chissà-come-sarebbe-andata, l’irrevocabile fatalità dei se, l’esordio di un periodo ipotetico stroncato sul nascere, contenente in germe il fallimento dei quando declinati al futuro: questo, da seppellire, è tanto più arduo e penoso.

La spinta di documentare, però, quella non muore mai. Neppure quando il materiale è grezzo e da impastare, e le riprese inerziali di una telecamera di sicurezza hanno inconsapevolmente registrato l’inizio delle rivoluzioni, la violenza repressiva delle forze armate, il caldo d’estate che costringe a lasciare la città per la montagna: e per fortuna, altrimenti chissà quante altre vittime l’esplosione del 4 agosto avrebbe causato.

Così la macchina di Sirine Fattouh si è fatta scudo, e dal behind her shield, l’archivio di una parentesi di realtà infangata e senza giustizia ha preso spontaneamente forma. La forza sovraumana non tanto dell’esserne stati parte, non tanto di sopravvivervi: ma di tornare sui materiali – quattro anni di riprese ininterrotte di vuoti, microcriminalità, molestie verbali, solitudine di gatti randagi e netturbini, conversazioni telefoniche rubate, scelta casuale di ristoranti, litigi e dichiarazioni d’affetto – per tirarne fuori qualcosa che rassomigli una storia. E che una storia non è, se non quella linguistica, l’epopea dei «quando» declinati al futuro trasformati in «se» più congiuntivo trapassato: da quando abbatteremo il confessionalismo, a se lo avessimo abbattuto; da quando la crisi economica si risolverà, a se questa spirale inflazionistica si fosse interrotta; da quando dalla nostra casa vedremo il porto, a se avessimo avuto una casa sul porto, adesso, saremmo sfollati.

È in questa chiave, nel mezzo di una simile catena di pensiero, che lo stesso pubblico in sala è stato esposto alla geniale follia dei soggetti di Nicolas Philibert: Sur l’Adamant, un day care galleggiante sulla Senna in cui, spontaneamente e liberamente, pazienti psichiatrici trovano spazio d’espressione creativo. E a seguirne le storie, nel crescendo di delusione a cui le proiezioni precedenti hanno abituato gli spettatori, sembra vuoto e retorico cercarvi speranza di guarigione. Non è il messaggio morale che il cinema documentario veicola: di messaggi e di morale, in questo venerdì sera piovoso, non ve n’è affatto. È, piuttosto, l’ambizione di raccontare la normalità della malattia psichica, di compirne la re-umanizzazione, creare nuove connessioni empatiche, incuriosire – il cervello pulsante per l’ammirazione di tanta acutezza – e pensarsi in gabbia, se paragonati a loro. Repressi e infranti, se guardati nello specchio del 4 agosto 2020. E colpevoli, anche, per sollevare tali interrogativi.

Forse è il loro reclamato diritto a esistere dietro la videocamera, ciò che questi artisti hanno tutti in comune. A parlare. A non silenziarsi per paura di contaminare il prodotto finito.

L’obiettivo entra in scena, disturba, distorce anzi il contesto. E i pazienti dell’Adamant vi interagiscono esibendosi in disquisizioni filosofiche che fanno venir voglia di prendere nota, quasi che stessero parlando a noi, improbabile platea commossa dal ricordo di conflitti, morti, ingiustizie continue. «The human bomb is you, it belongs to you/ The detonator’s there just next to your heart/ It’s the human bomb» – canta magistralmente uno degli attori viventi di Nicolas Philibert, che ha spesso ripetuto di non fare film sulla psichiatria: bensì dentro la psichiatria. Così, questi documentari nati nel Libano e per il Libano, ci piace non pensarli a proposito di esso. Ma dentro. Con l’ambizione di dire il mondo per com’è il giorno dopo l’ennesima catastrofe. Che chiama il pubblico della sala a interrogare l’arte su cosa farà adesso, come saprà raccontare questa, di realtà. Se ci fosse stata una videocamera di sicurezza accesa durante le scosse di terremoto che lo scorso febbraio hanno risvegliato il trauma collettivo dell’esplosione: come l’avrebbe narrata. O gli incendi alle banche il giorno in cui la lira ha raggiunto i centoquarantamila; le sparatorie nei quartieri tra i proprietari di generatori di corrente; o quando per due giorni i cristiani e i musulmani hanno seguito orari diversi, e discordie confessionali mai sepolte sono riaffiorate nelle conversazioni coi tassisti, a seconda che venissero da Tripoli o da Byblos.

Il magma di questa realtà incandescente, in Libano, porta un documentario dell’anno scorso ad apparire già vecchio. Al non potersi riconoscere se non nell’immagine del sé riflessa nello specchio dei bagni del cinema, nell’attesa tra la prima e la seconda proiezione, già così diversa da quella di questa mattina. È l’antico interrogativo sulla possibilità di un’arte che si definisce realista di constare il mondo per com’è: senza cristallizzarlo. L’abilità di raccontare il divenire. Tra tutti, un documentario più degli altri pare aver compiuto la sfida, ed essere stato registrato nel presente sempre nuovo: nel presente sempre peggio. È Karim Kassem, con l’ultimo titolo della sua trilogia, THIIIRD, che con un fare delicato e poetico, coi ritmi lenti della narrazione concettuale, ma la praticità di chi è uso a manovrare utensili da lavoro meccanico, restituisce la bellezza critica e assurda della vita quotidiana in un’officina di un villaggio non distante da Beirut.

Fouad è allucinato e lucido, nel mezzo di un sogno visionario in bianco e nero che registra, senza pretesa di raccontare, il dramma esistenziale quotidiano di chi aspetta, osserva, e pertanto si fa aspettare. Flemmatico, gestisce la sua officina in fondo a un burrone dove piove quasi quotidianamente. Come qui, oggi, che par quasi che lo schermo sia una finestra: e che mostri, più che riflettere. E poiché insiste a voler prendere il suo caffè rituale, costringendo i clienti all’attesa nel cortile, lo spazio d’immobilità dato dall’assenza di trama permette a ciascuna vita di srotolarsi senza compiersi. Di mostrarsi per la sua assurda durezza e resistenza, tragica e benedetta. Due giovani provano uno spettacolo teatrale, e disquisiscono sulla differenza linguistica del tornare indietro e del ritornare; un giovane lamenta l’insonnia, mentre l’amico si chiede se la truffa non sia il mestiere più redditizio; una madre reclama il suo diritto a piangere dopo che lo stato le ha preso tutto: i risparmi, le speranze, e adesso l’educazione della figlia. L’effetto della guerra in Ucraina sull’economia libanese fa ridere d’amarezza la platea. Il tempo è elastico e frammentato, proprio come quello reale, sicché in un attimo tutto va a fuoco: poi piove di nuovo e ogni cosa torna alla normalità. Nella vita e nel documentario.

E noi spettatori camminiamo in fila sulla storia per partecipare alla sua proiezione: non solo per raggiungere il cinema Montaigne, sulla strada che per quindici anni di conflitto civile è stata inattraversabile in quanto linea verde che separava Beirut Est da Beirut Ovest, coi cecchini che sparavano a vista. Non solo attraversando Downtown e piazza dei Martiri, che appena tre anni fa ospitava proteste che hanno ricevuto la dignità del nome rivoluzione. Non solo proseguendo verso Burj Hammoud e guardando a sinistra, verso il porto, riconoscendo le forme lacerate dei container di nitrato d’ammonio, la brutta scultura che coi detriti dell’esplosione ricorda le vittime: commemorazione, per assurdo, che precede giustizia.

Accanto a me è seduto un ragazzo scappato dalla Siria e che rischia il rimpatrio forzato: perché la crisi economica porta anche a questo, all’incolpare i gruppi vulnerabili, ritenerli i responsabili di ogni disgrazia. Poco più lontano, al di là del corridoio, siede uno degli attori che probabilmente non recitava affatto e per tutta la proiezione non ha fatto altro che borbottare, forse infastidito dal riconoscersi con tanta lucidità. L’autista del service che non si può permettere di spendere duecentomila lire per il biglietto d’ingresso, anche lui è parte della storia che si attraversa per andare al cinema ed è al di là dello schermo che mi aspetta per riportarmi a casa, essendo una città così buia terribilmente insicura per una ragazza, di sera. La donna qualche fila davanti a me, che annuiva a supporto della madre in lacrime al telefono, forse anche lei ha dovuto ritirare i figli da scuola perché le tasse si possono pagare ormai solo in contanti: e il suo conto è congelato, le banche chiuse. E chissà a quanti altri, in questa sala, non è rimasto altro che il diritto di piangere così, in bianco e nero e senza morale, mentre fuori piove, Beirut è desolata e spaventosa, e ciascuna storia si spiega sullo schermo che non è più né proiezione né finestra ma specchio, deformante e pertanto affidabile, dell’assurdità del vivere quotidiano.