La tensione al confine israelo-libanese e la memoria risvegliata della guerra del 2006

Tripoli, Libano. Terra chiusa, cielo chiuso, mare – chiuso: sebbene sia sempre nostrum, il Mediterraneo Orientale, Mediterraneo Levantino, circondato da filari di cemento e di spine, colline a divieto d’accesso, catene di posti di blocco, confini invalicabili.

L’ultima volta che quello tra Libano e Israele si è aperto è stato nell’estate del 2006, quando, in reazione al rapimento di due soldati israeliani da parte di miliziani del movimento sciita di Hezbollah, le Forze di difesa israeliane hanno attuato un blocco militare cessato dall’intervento dell’Onu, causando, in poco più di un mese, un milione di profughi, quasi duemila morti tra i civili libanesi, e lo spiegamento della Forza di interposizione delle Nazioni Unite (UNIFIL) nel sud del Paese.

Anche allora, ma meno di oggi, era semplice mistificare la realtà con un banale trucco dialettico e iniziare il racconto con le conseguenze, occultando le cause, era sufficiente per trasformare in barbarie un atto di protesta, resistenza e restituzione. Al centro dell’attenzione, nei primi anni 2000, era il controllo israeliano della regione delle fattorie di Sheb’a, al confine tra Libano, Siria e Israele: quando quest’ultimo occupò le Alture siriane del Golan durante la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, le fattorie di Sheb’a furono considerate come appartenenti al territorio siriano, dunque occupate, e successivamente poste sotto il diritto civile, l’amministrazione e la giurisdizione israeliana, nonostante la ferma condanna delle Nazioni Unite. Il Libano, che non aveva preso parte al conflitto del 1967, considerò quel territorio come illegalmente occupato: ed è citando queste ragioni, insieme alla restituzione di prigionieri libanesi, che Hezbollah ha continuato la sua offensiva verso il confine, portando nel 2000 alla liberazione dall’occupazione israeliana dei territori meridionali.

Tuttavia, il prezzo da pagare tra il 12 luglio e il 14 agosto 2006, per molti libanesi, è stato considerato tropo alto.

Oggi, al sesto giorno dall’inizio del conflitto tra Hamas e Israele, e al quarto dal coinvolgimento di Hezbollah nello stesso, la memoria di quei 34 giorni sembra risvegliarsi: chi lo scorso sabato supportava con entusiasmo l’offensiva palestinese, oggi biasima il movimento filo-iraniano per aver preso parte allo scontro. Chi può, prepara i bagagli per partire. Chi crede in Dio, prega che questa volta si eviti un’escalation. Chi cambia i soldi al mercato nero, si chiede se a questa crisi si arricchirà o perderà tutto. Gli altri, vivono come se niente fosse, affaccendati nel traffico e nei rituali quotidiani.

Io e Fatima siamo coetanee: classe 1998, venticinque anni a giugno. Del 2006 io ricordo la Coppa del Mondo, mio padre lontano, la gita scolastica della prima elementare. Lei: sirene d’allarme, coprifuoco, bombardamenti, insieme al trauma che le è rimasto ogni volta che passa una motocicletta, e scambia lo scoppiettio del motore per una catena di spari. È una parola che in arabo devo imparare, mi dice, awwas, insieme a una serie di maledizioni per scongiurare la paura. 

«A volte sono fuochi d’artificio, altre veri e propri colpi di pistola». Per celebrare, mi dice. Sicché in questo paese non sai mai se muori per una guerra, per una faida o per un matrimonio.

Fatima è musulmana, porta il hijab, e il posizionamento politico della sua comunità, durante la guerra civile che dal 1975 al 1991 ha spaccato il paese a metà – cristiani da un lato, musulmani e palestinesi dall’altro – la vorrebbe al fianco della causa palestinese, ad ogni costo. Ma a quasi cinquant’anni da quella data d’inizio, cesura indelebile nella memoria frammentata e ferita dei libanesi, cui seguirono decenni di morti e sparizioni forzate, due occupazioni straniere – quella israeliana e quella siriana; la corruzione dilagante, una crisi economica senza precedenti, iniziata nel 2019, che oggi ha raggiunto un tasso di inflazione al 264 percento; dopo rivoluzioni tentate e fallite, l’assenza di governo, e una delle esplosioni più tragiche della storia – quella che nel 2020 ha colpito il porto di Beirut, paralizzando gli entusiasmi ancora in vita nel paese – i confini tra le parti non sono più così netti. E il popolo, impoverito e stanco, non vuole, non può, reggere un’altra guerra.

La paura di rivivere il 2006, di trasformare il Libano in un campo di battaglia tra Israele e l’Iran, è percepibile: nonostante la vita continui con i suoi ritmi, scandita tra un hamdulillah e l’altro. Grazie, Dio, per tenerci ancora vivi: e perché ogni cosa – e chi vive in Libano, oggi, lo sa bene – potrebbe peggiorare drasticamente, senza controllo. Anche se tante cose sono cambiate dal 2006: e anche questo i libanesi lo sanno.

La percezione del movimento filoiraniano, tra la pubblica opinione, è controversa: dal 2006 a oggi, da gruppo eroico di liberazione, il partito si è imposto con forza sulla scena libanese, mascherando la repressione violenta del dissenso e dell’opposizione con una politica propagandistica di assistenzialismo, riuscendo a solidificare il consenso tra le classi più povere.

Diverso è anche lo scenario globale: in caso di un’escalation degli scontri, questa volta, sul campo, potrebbero spiegarsi le forze di Iran, Siria, Russia e Stati Uniti, provocando danni umani e infrastrutturali dalla portata inimmaginabile, per un paese già così provato. 

La già citata crisi economica libanese, infatti, unita all’assenza di governo, lascia immaginare quali sarebbero le conseguenze. Anche l’esercito, come il parlamento, è frazionato tra le 18 sette religiose: sebbene, a differenza dei politici, per sostenere il peso economico delle proprie famiglie, sia comune che i militari facciano altri lavori, soprattutto i tassisti, lamentando l’aumento del prezzo della benzina, e costringendoti alla paradossale dialettica del contratto per poche decine di centesimi.

Infine, la gente che può – perché ha i documenti per farlo – ha già le valigie pronte per partire. Ma a un terzo della popolazione manca questo diritto. Su una superficie di poco più di 10.000 chilometri quadrati, circa quattro milioni di libanesi convivono con quasi due milioni di rifugiati, rendendo il Libano il paese al mondo con la più alta percentuale di rifugiati rispetto alla popolazione. Perché un’altra enorme differenza rispetto al 2006 è che, nel mezzo di questi tumultuosi diciassette anni, c’è stato il 2011, la guerra in Siria, e l’esodo di circa 1 milione e mezzo di siriani, non naturalizzati né normalizzati, dunque impossibilitati a fuggire, insieme ai già presenti 500mila palestinesi.

E alla crescente povertà, come spesso accade, si affianca il crescente risentimento, il crescente odio, il crescente razzismo: per cui è difficile immaginare, nel peggiore scenario possibile, che forme di solidarietà come quelle manifestatesi nel 2006 tra gli sciiti del sud, rimasti sfollati dai bombardamenti israeliani, e i cristiani dei villaggi limitrofi, si ripetano. 

Perciò, a chi manca il diritto di scappare e di chiedere aiuto, rimane quello di nascondersi: e invece che fare le valigie, si pensa alle provviste, come riportato in questo intervento pubblicato su L’Orient-Today: «Il dekkeneh (piccolo minimarket) di Karim, un uomo sui vent’anni, è stato pieno di clienti per tutto il lunedì mattina. “Non si è mai visto prima. Di solito bisogna aspettare fino a domenica per vedere così tante persone”, dice Karim.»

È l’ennesima legge non scritta dei paesi in perenne conflitto: quando la tensione aumenta, aumentano anche le vendite di beni di prima necessità. E il pensiero non si astrae alla politica: ma si materializza, invece, nella dura sopravvivenza.