There is no alternative.
La frase di Margaret Thatcher, che insieme all’attore presidente Usa Ronald Reagan visualizzano la coppia emblema del neoliberismo, non è vera.

È ideologica e manipolatoria, e in questo senso ha avuto grande successo. In realtà, se torniamo al senso originario delle cose la verità, o perlomeno evidenza dei fatti, trionfa. Questa sezione di Q Code si compone di una intervista su come riscoprire il Pubblico, nell’era del tutto privato e di una riflessione sulle alternative, che – appunto – non solo esistono, ma sono anche possibili. In barba alla Lady di Ferro, come veniva chiamata la Primo ministro britannica.

Una prima parte quindi con un’intervista a Mario Pianta, professore di politica economica alla Scuola Normale Superiore a Firenze, tra i fondatori della Campagna Sbilanciamoci! (il suo ultimo libro è ‘Disuguaglianze’ con Maurizio Franzini, Laterza, 2018). E un intervento che ho chiesto ad Alessandro Messina, oggi responsabile dell’area Finanza di Avanzi Spa, già direttore generale di Banca Etica, al Master su Non Profit e Innovazione Sociale dell’Università di Roma Tor Vergata (è autore per Altreconomia di Manager Cooperativi, 2022).

La riscoperta del Pubblico. Come ripensare intervento dello stato, spesa pubblica, politiche: intervista a Mario Pianta

La guerra in Ucraina, la pandemia di Covid-19, il ritorno dell’inflazione: le crisi attuali stanno rimettendo al centro della politica e dell’economia l’intervento dello stato, dopo decenni di enfasi sul Privato. Perché il Pubblico è stato ‘rottamato’ a favore di privatizzazioni e dottrine che, anche con governi di centro-sinistra, non hanno fatto che favorire il cosiddetto mercato? Facciamo un po’ di storia.

«Un po’ di storia ci serve. Veniamo da quarant’anni di politiche neoliberiste che hanno ridimensionato il ruolo dello stato e della politica, privatizzato le attività pubbliche, liberalizzato i mercati, ‘lasciato fare’ alle imprese, tagliato la spesa pubblica, in particolare quella per il welfare e la sanità. Nei decenni passati il sistema delle imprese ha organizzato la produzione a scala globale con complesse reti produttive che si sono mostrate molto vulnerabili di fronte agli sconvolgimenti del commercio internazionale legati alla pandemia e alla guerra in Ucraina. I paesi europei e l’Italia hanno perso capacità produttive essenziali, come quelle per realizzare beni importanti come i vaccini, e sono esposti all’instabilità dei mercati esteri: carenza di materie prime – dal rame al grano – e di semilavorati – in particolare chip ed elettronica -, aumento dei prezzi di gas e petrolio. Si pensava che le scelte delle grandi imprese, con le loro produzioni globali, assicurassero più efficienza: più beni a prezzi più bassi.

Ma il prezzo di questo modello – nascosto a chi non voleva vederlo – erano i salari bassissimi nei paesi poveri e la distruzione ambientale che ci porta al cambiamento climatico. E poi c’era l’ubriacatura della finanza speculativa: quotazioni di borsa sempre in ascesa anche se le imprese non fanno profitti, la ricerca di guadagni di breve periodo, a danno delle prospettive di sviluppo.

Ora perfino le grandi imprese multinazionali non sanno gestire l’instabilità, il disordine internazionale che hanno contribuito a creare, hanno bisogno dello stato. Negli Stati Uniti è stata appena approvata una legge sulla politica industriale che finanzia la ricerca, l’innovazione e la produzione di semiconduttori negli Usa con 280 miliardi di dollari di sussidi pubblici».

L’alternativa possibile. Di Alessandro Messina

L’economia è terreno di conflitto per sua natura. Perché tratta di risorse e di come distribuirle. Tra chi ha più e chi ha meno, nell’immediato, e tra chi potrebbe avere di più o di meno, nel futuro.

È la disciplina della scarsità, per questo. E diviene di conseguenza la “triste scienza”, come la definì Thomas Carlyle.
Ma quando, poi, l’economia esce dalla sfera semplice dell’amministrare, del gestire contabilmente le risorse date, diventa visione della società, del futuro, del rapporto tra generazioni e tra specie umana e pianeta. E questo puntualmente accade quando qualcuno è insoddisfatto rispetto a come va l’amministrazione corrente: gli utopisti, i socialisti, i comunisti, i progressisti, le femministe, gli ambientalisti… tutti coloro che rilevano una o più ingiustizie nella società, e si ingegnano per risolverle, sono portati ad occuparsi di economia. Nel senso, però, più nobile del termine, quello appunto della visione.

Nel conflitto, però, non è facile far sentire la propria voce. Anche negli Stati ad assetto democratico, contano i rapporti di forza, e chi ha più risorse disegna la cultura e il pensiero dominante, controlla gli strumenti di informazione, forma il ceto dirigente. Allora, non importa di che età storica si parli, nascono le pratiche economiche alternative. Nascono dal basso, semi-clandestine, con il doppio fine, da un lato, di mettere alla prova idee che per alcuni suonano eretiche e vedere se invece possono effettivamente funzionare, e dall’altro di rafforzarsi, attraverso la sperimentazione, prima di farsi proposta e modello teorico differente.