Nel Libano meridionale, dove la guerra è una realtà tangibile, la vita continua all’insegna della bellezza e della solidarietà

Arzoun, Libano meridionale. Nome di paese – piccolo cedro, eppure, terra di colline, di uliveti e di arance. Janub, Mediterraneo e Sicilia, che vi assomigliate tutti. Mucchi di famiglie sulle terre di verde, nasi all’insù e gridi infantili: «Eccolo lì, tra il ramo e lo stormo». Risposte deluse in lontananza: «Dove? A destra o a sinistra della nuvola a forma di cascata?». Convinti: «Laggiù, nella porzione di azzurro in direzione-Palestina». Non cercano stelle cadenti: ma droni.

Il ronzio dello spionaggio israeliano è costante e odioso. Talvolta lo copre un mueddhin, talvolta uno scampanellare domenicale, talvolta un grido di madre che avverte la compagnia che la colazione è sul tavolo. Casa e pasto, ad Arzoun di uliveti e di arance, sono concetti aperti. Non si smette di mangiare né di accogliere stranieri. Ahlan wa sahlan, tfaddalu. Benvenuti, prego, accomodatevi e favorite. Le porte non le chiude la chiave né il tempo del riposo – e i confini tra le uova e il caffè, tra il tè alla cannella e il formaggio fresco di villaggio, il timo, l’olio verde annusato con devozione prima di essere cosparso – bene prezioso per una terra che dal prossimo anno non ne produrrà, terra sterilizzata dai bombardamenti nemici – cessano di scandire il tempo. Al sud – in ogni sud – ritualità è incantesimo di lentezza. Janub, terra di confine che pensa e reimpara la vita senza confini. 

Non c’è solo il nucleo familiare – che nel sud del Libano, centro del Mediterraneo, supera la dozzina, con le figlie e i nipoti sparsi tra le case circostanti – né la famiglia allargata, unita dal cognome, dal lutto e orgoglio dei martiri caduti per mano israeliana, e dalle rughe di espressione che cerchiano gli occhi ridenti e celesti. Arzoun, ultimo villaggio sul bordo del fiume Litani, demarcazione tra il pre e il post-2006, contesa questione di ritiro di milizie di resistenza che il mondo chiama terroristi, e l’esperienza dell’occupazione – partigiani. Che se il piano israeliano di espansione e conquista coloniale si avverasse, segnerebbe l’estremo confine del paese dei cedri, e i rifugiati che oggi accoglie – fuggiti dalle zone un tempo di raccordo, poi di frontiera, e oggi dichiarate militari e in guerra – diverrebbero permanenti. Come le decine di migliaia di palestinesi del 1948, che dal 7 ottobre sono tornati a credere al muro come a una chimera, e al ritorno come a una realizzabile realtà. Ad Arzoun, gli sfollati dell’8 ottobre, giorno di apertura del fronte bellico libanese, vengono soprattutto da Ayta, nel distretto di Bint Jbeil, e li riconosci dagli occhi scuri – pur sempre, straordinariamente, ridenti – e dalla parlata stretta, dialettale, a tratti incomprensibile, motivo di scherno affettuoso e rapido legame, come sempre quando insieme si ride e si piange. E certamente, è chiaro, hanno pianto. Hanno pianto le madri, hanno pianto i bambini, e forse, nascosti, gli uomini combattenti silenziati dagli anni di prigionia in Israele, che camminano male e parlano poco, eppure incutono un rispetto ossequioso, da far tremare l’aria.

Loro, i sopravvissuti al martirio. Seduti in cerchio attorno ai tappeti con i bambini che non sanno della guerra e quelli che la intuiscono e quelli ancora che la conoscono e scelgono di ignorarla, per votarsi alla solennità del gioco. Alcuni bambini non piangono mai. Ma a più di cento giorni dalla distruzione delle case e degli uliveti, sotto un sole che pare primaverile, abituati a nuove routine, alla caccia ai droni nel cielo spalancato, a condividere un’unica brocca d’acqua attenti a non poggiarvi le bocche, un nuovo senso di leggerezza e umorismo impera.

Ad Arzoun, la sera, gli stranieri del confine si riuniscono con la nuova e ridente famiglia dagli occhi celesti per improvvisare poesie. Gli uomini e le donne sono separati da una linea invisibile al centro della stanza che sguardi complici e riferimenti ammiccanti cancellano. Non c’è segregazione sotto i veli e i sorrisi scaltri delle ragazze. Ad Arzoun, il ronzio onnipresente dei droni israeliani lo copre il canto della bellezza di un corpo femminile, di Giuseppe profeta biblico e coranico, della resistenza sulle colline, e l’approvazione collettiva in forma di «hof» e di applausi. Cantano la resistenza, il Dio e l’amore, condividono storie, battono le mani per orgoglio, gratitudine e accertamento che non siano state amputate, che funzionino ancora, che il missile mortale lanciato qualche ora prima a venti minuti di distanza, anche oggi, li abbia risparmiati. E che Arzoun sopravviva.

Non è una metafora: ma un tentativo di raccontare la guerra al di là del conteggio dei morti e degli sfollati, dei chilometri di distanza tra il punto di lancio e quello di arrivo di un missile, delle contraddizioni e delle ipocrisie della classe politica, del rischio scampato di un’escalation su vasta scala. E se sui giornali si legge: giorno centosette, fronte meridionale, comunicato di Hezbollah, libanese caduto in attacco a cellula di Hamas – nel Janub si sente dire: c’era una volta, a casa, mio cugino è morto, e tutti in coro Allah yerhamo, Dio abbia pietà della sua anima.

«Tu l’hai sentito?», «sì l’ho sentito, ma in lontananza». Un suono di vaga esplosione interrompe l’odioso ronzio dei droni. Non parlano di un tuono: ma del missile caduto qualche ora prima e a venti minuti di macchina di distanza, che non è caduto ma è stato lanciato, e ha ucciso, insieme al cugino, altri tre uomini, gli ennesimi partigiani che il mondo ci racconta terroristi, che Dio abbia pietà delle loro anime.