“Tu eri per me la misura delle cose. Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui Legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero.”

Così scrive Franz Kafka nella Lettera al padre, pubblicata postuma nel 1952. In poche incredibili pagine, l’autore tratteggia la figura del genitore così precisamente e così dolorosamente da fornirci un vero e proprio archetipo – quello del brutale Saturno che divora i propri figli, del tiranno domestico che sopprime ogni tentativo di rivolta, gettando le proprie ombre persino in assenza (“anche quando scrivo” continua Kafka, “mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze”).

Proprio questa figura dispotica, che ha conosciuto così tante reincarnazioni sia nel cinema che nella letteratura, è quanto più lontano possa esistere dal padre introverso e laconico ritratto nel film Aftersun. Ecco, dell’ipnotico lungometraggio di Charlotte Wells si può innanzitutto dire che cosa non è: non un affondo psicologico sul rapporto padre e figlio (anzi, figlia), non una lettera piena di rabbia e risentimento, tantomeno un tentativo di regolare i conti con il passato. Piuttosto, uno speciale tentativo di divinazione, dove la figura del padre viene evocata ma è sempre qualcosa di troppo fragile, un riflesso che affiora per brevi momenti e poi subito scompare nelle intermittenze della memoria.

La trama è esilissima: il trentunenne Calum (Paul Mescal) trascorre alcuni giorni di vacanza in Turchia insieme alla figlia undicenne Sophie (Frankie Corio, qui al suo esordio sul grande schermo); senza bisogno di voce narrante o didascalie esplicative, solo grazie alla forza di alcune scene anticipatrici, intuiamo che si tratta del loro ultimo viaggio insieme, e molti anni dopo Sophie cercherà di rievocarlo in ogni dettaglio, mischiando i propri ricordi alle immagini di una videocassetta. Il film comincia proprio con il meccanico ronzio di un videoregistratore che si avvia; un suono che preannuncia questo viaggio a ritroso nel tempo, e insieme ci mette in guardia dall’inaffidabilità di quanto vedremo. I giorni non sono infatti scanditi in maniera decisa: le immagini scivolano lentamente l’una nell’altra, attraverso un montaggio che procede per dissolvenze, dandoci così l’impressione di assistere a un unico e lungo pomeriggio d’estate.

Dissolvenze e riflessi, ecco la sintassi di questo film: spesso i protagonisti non sono inquadrati direttamente, ma solo intravisti attraverso la superficie di un tavolo o di un televisore spento. Una precisa scelta registica, come ha confermato Charlotte Wells in un’intervista pubblicata su Mubi, per trasmettere l’idea che quanto vediamo sia un resoconto della memoria e, al tempo stesso, restituirci tutta la fragilità di un rapporto difficilmente definibile. La videocamera che impugna Sophie bambina è infatti sia un gioco sia uno scudo di Perseo attraverso cui studiare questo padre così incomprensibile, che a tratti si dimostra infantile e allegro, a tratti pare sprofondato in una tristezza impenetrabile.

Un film che si basa interamente su due personaggi, e in cui la trama si assottiglia alla quotidianità di una gita in barca o di un tuffo in piscina, avrebbe facilmente potuto annoiare, eppure i due attori costruiscono un’alchimia a cui è difficile restare immuni. Se Paul Mescal è superbo nel rappresentare un padre perennemente a disagio anche quando sta soltanto seduto a prendere il sole, Frankie Corio porta sullo schermo una spontaneità che hanno solo certi personaggi di Richard Linklater, capaci di abitare uno spazio vivo di improvvisazione che sarebbe impossibile tradurre in sceneggiatura. Tenerezza è allora il termine per definire il modo in cui la regista ritrae i due protagonisti, così come il modesto resort in cui trascorrono le vacanze, che poi è una di di quelle pensioni che si incontrano ovunque, con tutti quei vasi di fiori sgargianti, gli animatori che invitano a ballare la macarena anche a cena, le coppie di anziani che si concedono un lento, i fotografi che spuntano in qualsiasi momento per chiedere una polaroid – tutti personaggi ripresi con un divertito rispetto e mai ridicolizzati, presentati anzi come le amorevoli figure di un diorama di infanzia.

Quando chiediamo più donne e più inclusività dietro la macchina da presa, non è un mero dato statistico che stiamo reclamando, ma un nuovo sguardo sul mondo. E Charlotte Wells, a suo modo, questo nuovo sguardo riesce a portarlo, raccontandoci un padre che non è né un Maestro né un Tiranno, raccontandoci un rapporto filiale svuotato dall’odio, dal conflitto aperto e dalla rabbiosa competizione, dove ciò che resta è, senza retorica e senza sovrastrutture, il distillato più autentico dell’amore.

Why can’t we give love that one more chance? cantano Freddie Mercury e David Bowie nella straziante scena finale, dove Calum e Sophie ballano sulle note di Under Pressure. Ci voleva un film così delicato per farmi immaginare una sfumatura diversa in questo semplice verso, che non mi sembra tanto domandarsi perché non possiamo dare alle persone un’altra occasione, ma – quesito ben più lacerante – perché ci è concesso amare, e vivere, una sola volta. Perché non possiamo risalire il tempo, e trattenere le persone che vorremmo non scomparissero. Eppure, this our last dance / this is ourselves: con questi versi si chiude la speciale lettera di Charlotte Wells, suggerendoci che eravamo proprio noi quelle persone che hanno sbagliato o non hanno compreso, che hanno vissuto i momenti più importanti con inconsapevolezza, perché sarebbe forse impossibile vivere altrimenti. Eravamo noi nella lucida banalità di un giorno d’estate, quando la felicità ci ha toccato senza che ce ne rendessimo davvero conto.