Dispacci dal Festival di Berlino #4

L’Adamant è una barca progettata per non navigare: sospesa sulle acque calme della Senna, rappresenta una propaggine di Parigi e al tempo stesso ne è un corpo estraneo. Tra i suoi corridoi in legno scuro non si incontrano capitani o marinai, ma persone con disagi psichici che qui trascorrono le giornate, impegnate in attività ricreative. Nicolas Philibert e la sua troupe sono saliti a bordo, e per mesi hanno ripreso i membri di questo speciale equipaggio mentre si dedicavano, assistiti da medici ed educatori, a laboratori di pittura, musica, fotografia, oppure raccontavano pezzi scombinati della loro storia, quasi che la telecamera fosse un modo per essere finalmente visti e riconosciuti da quella città che dagli oblò appare così lontana.

Chi conosce il regista francese non si stupirà della sensibilità di cui è infuso Sur l’Adamant, né del ritmo lento e incantato che è poi la cifra di tutti i film di Philibert. Può invece stupire, e piacevolmente, che a questo documentario dal tema e dalla durata non indifferente sia stato assegnato l’Orso d’oro al 73esimo Festival di Berlino. Voci malevole parleranno di un premio conferito non tanto per il valore dell’opera quanto per il prestigio di Philibert, che è stato capace di film più riusciti di questo – su tutti, Essere e avere, che nel 2002 raccolse il plauso di critica e pubblico. Eppure, chi le sale e i festival li frequenta da tempo, e non vuole accontentarsi di supposizioni superficiali, né dell’alibi del “politicamente corretto” che è poi una minaccia inesistente se si ha davvero coscienza di quel che esce sul grande schermo, sa che questo Orso d’oro si allinea a un clima di generale mutamento che attraversa il cinema negli ultimi tempi. Per farla breve, da almeno dieci anni a questa parte le cose di gran lunga più interessanti non si trovano nella finzione pura, ma nel documentario, e in tutte le possibili ibridazioni che sorgono in mezzo a questi due poli.

Sur l’Adamant

È vero, i premi sono riconoscimenti fortuiti, non per forza vengono assegnati per un desiderio di avanguardia e non per forza significano attestazioni di merito, ma la decisiva affermazione di autori e autrici di documentari nelle competizioni internazionali non può essere vista come un mero dato statistico. Gianfranco Rosi si è ormai distinto come uno degli autori più interessanti a livello europeo, grazie a un approccio al tempo stesso classico e filosofico, laddove l’inquadratura fissa e l’osservazione insistita sono sì un modo per scolpire la realtà, ma anche un modo per chiedersi che cosa sia, la realtà: proprio questo metodo gli è valso, nel 2013, il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia per Sacro Gra, e solo tre anni dopo l’Orso d’oro a Berlino per Fuocoammare. E se Martin Eden ha consacrato Pietro Marcello al grande pubblico, chi bazzica i festival sa che l’autore aveva già fatto parlare di sé proprio a Venezia e Berlino, rispettivamente con Il passaggio della linea e La bocca del lupo, due film che non ha alcun senso cercare di definire come documentario o finzione per la libertà e la poesia con cui Marcello ibrida i due mondi. A Nomadland di Chloe Zao, prima Leone d’oro prima e poi Premio Oscar 2020, si può forse rimproverare di essersi distaccato fin troppo dall’inchiesta giornalistica a cui si ispira, ritraendo i nuovi nomadi americani come spiriti avventurieri e non come cittadini a cui una società classista e individualista ha sottratto ogni diritto, ma l’audacia che manca nella scrittura di certo non manca nella regia, dove un personaggio di finzione, interpretato da Frances McDormand, interagisce con persone che interpretano solo sé stesse. Un’operazione di certo non nuova, ma che fino una decina di anni fa difficilmente avrebbe raggiunto simili consensi. E se il Festival di Cannes ci ha fatto conoscere un maestro delle ibridazioni come Jonas Carpignano, bisogna riconoscere che in questo 73esimo Festival di Berlino i documentari hanno avuto uno spazio non certo indifferente.

Les chenilles

Oltre a Sur l’Adamant di Philibert, sono stati premiati Les chenilles di Michelle Keserwany e Noel Keserwany come miglior cortometraggio, mentre Orlando di Paul B. Preciado si è aggiudicato, oltre che una menzione speciale come miglior documentario, il premio della giuria di Encounters. Il premio alla miglior fotografia è andato a Hélène Louvart, che ha lavorato a Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, regista italiano qui al suo primo lungometraggio di finzione, dopo una ricca e felice produzione di documentari. La stessa Hélène Louvart può vantare, tra le sue collaborazioni eccellenti, quella con Agnès Varda, una che il documentario l’ha riscritto e reinventato a suo piacimento. Si potrebbe andare avanti per ore, parlando anche della bellezza di molti film proiettati che non hanno vinto alcun premio, ma i titoli fin qui citati dovrebbero bastare per ammettere, con una sincerità liberatoria, che non sappiamo più di cosa parliamo quando parliamo di documentari.

Disco Boy

Ne Il sistema periodico Primo Levi metteva in chiaro che quelle da lui raccolte fossero storie autobiografiche, “ma storie lo sono pure”: lo stesso potremmo dire per film come Les chenilles o Orlando, che in questa Berlinale si sono distinte per la raffinatezza della costruzione narrativa, così come per la qualità letteraria della voce narrante, ma anche un film in apparenza di pura osservazione come quello di Philibert presenta una struttura non indifferente. Da autore esperto, Philibert sa che la realtà “così com’è” non è visibile sullo schermo, ma esiste solo attraverso una sua rappresentazione. Quando è salito sull’Adamant non portava con sé solo empatia e buone intenzioni, ma anche una precisa visione registica: ha scelto di concentrarsi su alcuni soggetti e non su altri, di privilegiare alcuni laboratori e alcune interazioni invece che altre, soprattutto ha scelto di ritrarre i soggetti che frequentano la struttura senza inquadrature ravvicinate, mettendo piuttosto ogni corpo in relazione allo spazio, di fatto mostrandoci l’Adamant come una piccola utopia in cui queste persone possono davvero esistere.

Forse i tempi sono finalmente maturi per riconoscere che il cinema di pura finzione, così come classicamente inteso, è solo una delle infinite possibilità che concede il cinema, e per troppo tempo sono stati confusamente etichettati come documentari racconti che tentavano strade più libere, dove la sceneggiatura è altrettanto presente ma è più sotterranea e diffusa, non esauribile in un copione. 

Tutto questo non significa che alla Berlinale, così come in generale nelle sale degli ultimi anni, non siano stati proiettati buoni e a volte ottimi film di finzione, ma quasi mai quei film hanno rappresentato giacimenti di nuove possibilità narrative, quasi mai hanno lasciato intuire che cosa il cinema potrebbe diventare, in quale direzione si potrebbe evolvere. Sperimentare significa anche sfidare lo spettatore, dar vita a opere non per forza riuscite, non per forza compatte, e questo è un rischio che gran parte del cinema di finzione (specialmente di matrice americana, sorretto da strutture produttive colossali ma anche sempre più spaesate di fronte all’avanzare di piattaforme algoritmicamente programmate) non ha alcuna voglia di correre.

Con un film tanto anomalo, Philibert questo rischio l’ha corso eccome. Forse una società come quella dell’Adamant, dove i cosiddetti sani si mescolano ai cosiddetti malati, e la fragilità e la sofferenza non sono represse ma accolte e accettate, è ancora ben lontana dal compiersi; nel frattempo, ci pensa il cinema a sfidarci e sorprenderci, a mostrarci quel che non sappiamo ancora immaginare.