Questo Kratos è dedicato a Matteo Scanni, con il quale abbiamo studiato per diversi mesi un lavoro molto ampio di indagine e inchiesta sul dopo Berlusconi. Le vicende di cronaca mi hanno ricordato quei tempi. Era il 2011.

Il giorno che lui.

Un manifesto, grande, rotto, scollato, lacerato. Si intravede il sorriso bonario e il doppiopetto, qui e là, e una delle tante promesse agli italiani. La carta satura di colla pende dal supporto e sventola perché c’è vento.

Buio e cambio scena.

Le piazze italiane: il Duomo di Milano, San Marco a Venezia, Firenze, Roma, Palermo, riprese alle cinque di mattina, in sequenza, vuote nella luce dell’alba. Con l’assenza umana – non avremmo potuto allora immaginare quanto ce le avrebbe rese familiari il covid – che le avrebbe rese immobili, in una attesa sfiancante come quella di una sensibile che va alla dominante, ma che si trattiene, di sapere come sarebbe stata quella nuova giornata.

Quella era la prima giornata senza di lui.

Era la giornata dopo la morte di Silvio Berlusconi con una grande domanda sul poi.

Lo avevamo titolato così il nostro documentario che nasceva da una semplice constatazione: il governo Monti si insediava mandando a casa Berlusconi, ma non il berlusconismo. Anzi: la domanda era proprio quella: che fine avrebbe fatto il berlusconismo dopo Berlusconi?

Allora, dodici anni fa, evocare il giorno della morte fisica era cosa lontana, ma potente metafora. Per questo il titolo, che ci piaceva tanto, era tronco: il giorno che lui non ci sarà più, era il sottointeso.

Con Matteo avevamo studiato per settimane la lista di chi avremmo voluto intervistare. Matteo aveva un metodo di lavoro rigoroso e soprattutto non era mai contento, spingeva l’asticella sempre un po’ più in là. Allora nelle sere milanesi, le famiglie in vacanza, ci trovavamo dopo i nostri lavori, un po’ stanchi e molto bolliti, ma con grande entusiasmo, perché la vera domanda che ci attraeva era sul futuro di un Paese e delle sue mille narrazioni sociali.

La politica: grande capitolo, dalla destra al centrodestra, al centro sinistra e sinistra.

I vati, i grandi pensatori che avrebbero costellato la narrazione.

I luoghi da andare a raccontare, le persone da coinvolgere dentro una serie di microfoni aperti con Radio popolare, con altri soggetti, in un’era in cui i mezzi di consultazione digitale e i social network erano già sviluppati, ma non ancora così decisivi.

Cosa ne sarebbe restato di un periodo orribile? Che però aveva allora un grande appeal popolare, e che oggi a 12 anni di distanza da quel progetto ci dice che avevamo ragione a voler lavorare su quel tema. La presenza del nome di Berlusconi per la corsa alla Presidenza delle Repubblica e tante altre tappe recenti, come il suo ruolo anche e ancora fra i fascisti che sdoganò e i leghisti che si prese a bordo, con qualche problema all’inizio, dice ancora del peso politico, nonostante le percentuali, ma comunque in grado di creare e spostare equilibri, o colpi a sorpresa come le dichiarazioni sull’Ucraina.

C’era la televisione e il bunga bunga. C’era la provenienza dei capitali sospetti a inizio carriera e lo stalliere mafioso; insomma c’era un percorso in cui dovevamo scegliere come raccontare non lui, ma quello che sarebbe stata la sua eredità.

Vedevamo già allora il segno, quello che molta stampa e anche intelligenti commentatori oggi descrivono bonariamente, perché la macchietta, l’imprenditore, il comico, lo chansonnier bauscia e il politico hanno trovato una sintesi grottesca nel personaggio. Ma senza quella simpatia per il protagonismo divertito o per il doppiopetto a nascondere l’ossessione lussuriosa e schemi da allenatore dell’oppio calcistico, senza quella simpatia rimangono dei solchi che ancora sanguinano e che sarebbero stati difficili da guarire.

Lo vedevamo allora e oggi lo ripeto io, che Matteo non c’è più. Un Paese impoverito dall’infotainment che ha stravolto l’informazione, che ha imposto format di massa che hanno rapito letteralmente l’audience, fra cani chiamati a rispondere, soubrette in costumi succinti e sempre ammiccanti, comicità da cabaret, spesso grossolana, con il ruolo della donna subalterno a una visione di oggetto del piacere, dello sguardo e poi in villa anche in maniera più diretta. Elettorato trasformato in pubblico, l’audience trasformata in propaganda elettorale, concentrazione, conflitti di interesse, guerre in procura, anzi in più procure, strappi costituzionali tentati a suon di sortite guascone, in una divisione netta dei pro e dei contro, ma sempre con lui al centro.

Ecco, credo che avessimo visto giusto, ma nonostante avessimo addirittura investito per avere un agente quel documentario non si fece mai. A un certo punto sembrava potesse uscire in allegato con qualche rivista progressista, ma poi tutto morì lì, in un sogno di produzione, che non era possibile autofinanziarci. E così Il giorno che lui divenne un file, dentro la cartella progetti, e lì riposa, mentre tanti di quei nomi che avevamo soppesato e scritto nella sceneggiatura non ci sono più.

Resta quel titolo, e questo scritto è un omaggio a una visione che avevamo avuto: magari un giorno non si chiamerà Forza Italia, ma il berlusconismo, così avevamo inteso, sarebbe durato a lungo. Come uno stile di vita e di potere, come un progetto dolosamente classista, con una netta separazione fra i ricchi e i poveri, nell’educazione, nella sanità, nel prelievo e nell’evasione fiscale con una continua spinta a emulare l’uomo che ce l’aveva fatta: soldi, donne, potere, televisioni e cinema, calcio. La seconda Repubblica, ma sporcata da quel piglio bauscia, che tanto bastano i soldi a comprare senatori o deputati.

Ma uno degli aspetti che più ci preoccupava era il danno enorme, tangibile oramai, profondo a quella che noi chiamiamo e conosciamo come cultura e che oggi è un oggetto che viene disprezzato a favore del disprezzo che ha reso il cafonal lo spirito del tempo. L’ignoranza portata a valore, specie nella piccola Italia, che poi è diventata base elettorale di spinte territoriali egoistiche e che la crisi internazionale ha trasformato in feroce lotta fra poveri.

Non ho la televisione da 19 anni. Ma quando ci passo vicino e vedo chi conduce e cosa conduce non ho dubbi su cosa abbia vinto e come sarà difficile, ma necessario, affrontare e continuare questa battaglia.

Ecco. Il giorno che lui si avvicina e come dice un amico e collega di scorribande radiofoniche non è vero che non si può parlare male dei morti. Non si capisce perché. Il giorno che lui arriva e forse non ci siamo ancora resi conto che avremmo dovuto tenere riflettori meno bonariamente accesi sullo showman, ma sul cancro che ha lasciato, fra una tetta, un corner e una barzelletta o una legge ad personam, in questa nostra povera Italia.