La prima volta che Nietzsche arrivò a Genova fu nel 1876. Vi restò una notte, giusto il tempo di una pausa per proseguire il suo viaggio verso Napoli.

Leggenda vuole che fu proprio in questa occasione che, guardando il mare, coniò il concetto di Amor Fati, letteralmente l’amore del fato. Ritornò poi a Genova alcuni anni dopo, nei mesi invernali dal 1880 al 1882, abitando in Salita delle Battistine 8 nel quartiere di Castelletto.

Nei nostri drammi personali, nelle sconfitte, nelle assenze, nelle perdite e in tutto quello che ci divora e ci devasta interiormente, Amor Fati è il nostro orizzonte possibile.

Accettare cioè che ci sia qualcosa che ci sovrasti, come un’alta marea atlantica inesorabilmente più forte delle nostre reticenze emotive. Amor Fati è l’accettazione degli accadimenti inesorabili delle nostre vite: per Nietzsche tutto è necessario, il bene quanto il male, e come tali vanno accettati.

Non ho mai avuto una grande passione per Nietzsche, come del resto non ho passione per eccentrici e megalomani (“io non sono un uomo, sono dinamite” scrisse in Ecce Homo), ma devo ammettere che accettare l’esistenza per come si presenta, sopportando la perdita delle certezze assolute e l’incontrollabilità euforica della gioia, ha sempre suscitato in me una grande fascinazione, soprattutto per l’idea di un’accettazione attiva che non sia rassegnazione.

Se vogliamo prendere per vera la leggenda che vuole appunto Amor Fati pensato per la prima volta a Genova, allora credo sia possibile porre questo ragionamento.

Innanzitutto è necessario considerare l’orografia del territorio, Genova è una città che in più punti (principalmente dalle alture) riesci a vedere, e la vedi tutta: dai quartieri residenziali e marittimi di levante fino a quelli proletari e portuali di ponente.

Percepisci la sua esistenza, la presenza, riesci a capacitarti della sua forma, ne senti il respiro, non l’assimili per osmosi ma la assorbi attraversandone lo spazio. Questa caratteristica è tipica di molte città portuali mediterranee, ma Genova la vedi nella sua totalità: è stretta tra il mare e le montagne, di conseguenza è una totalità essenzialmente verticale e orizzontale, bidimensionale.

A capire dove inizia (sui monti) e dove finisce (sul mare) si è già a buon punto per riuscire a comprenderla. Ricordo che quando sono andato per la prima volta sul Trebević ho capito l’essenza della città e il dramma della guerra: senza salire sulle alture difficilmente si può capire Sarajevo, così Genova.

Questa è una città che coltiva orizzonti in costante dialogo tra loro: quello marittimo (la città finisce là dove le onde vanno a morire), quello di terra, sulle alture che portano ai passi montani.

Se noi viviamo ciò che camminiamo, e il suolo che calpestiamo e lo spazio sono ciò che ci attraversa, allora negli occhi di chi cammina in città c’è per forza di cose una spinta verso l’alto, in verticale, celeste e divina, dove tutto ciò che riguarda la sacralità delle nuvole è preso in considerazione in tutta la sua potenza. Una città verticale caratterizzata da un terzo possibile orizzonte: quello celestiale.

Penso che anche Nietzsche avesse percepito questo spaesamento che porta con se la conformazione orografica della città, questi orizzonti che costantemente si sovrappongono dialogando tra loro e con noi, imponendoci in un certo modo la loro inevitabile accettazione spaziale.

Ogni giorno mi chiedo se è vero che abito qua, se davvero su questa mattonata al mattino sento le voci dei bambini che vanno all’asilo, se davvero vedo il mare ogni volta che esco di casa, se effettivamente sento la confusione dei mercati rionali, perché se è così, se tutto questo è reale, se Genova ora è tutto quello che ho, allora posso essere in grado di accettare quello che la vita, nel bene e nel male, riuscirà a darmi. Solo da qui, da questa prospettiva disambientata, marittima, di terra e celestiale, si può provare a lasciare fluire l’esistenza per accettarla senza rassegnazione.

È la geografia dei luoghi che ci permette percorsi diversi, che ci fa prendere strade e direzioni che non avremmo mai pensato perché le ritenevamo secondarie, senza alcuna attrazione o caratterizzazione particolare.

Così come l’accettazione del destino (Amor Fati) impensabile fino a poco fa, diventata ormai una routine nell’odierno. Assorbiamo i luoghi che abitiamo e li accettiamo come parte di noi, come se l’urbe fosse il prolungamento del nostro copro e noi fossimo l’emanazione dei suoi orizzonti.

Carry home to where I am from

Carry to the place that I have come

Carry to the dust and flies behind me

Carry to the cracks and caves on the face of me