Profumo di primavera, la brezza fresca del mattino, il cielo terso, Sarajevo piena di luce, il sole sopra la città, il cielo sopra Grbavica. Sarajevo nel buio. Il vento freddo dal Trebević che porta con se il profumo della montagna, il profumo dell’inverno o quello intenso dell’estate. L’odore dei tigli che circondano la strada, i palazzi socialisti crivellati dai proiettili. Sarajevo sparsa sui monti, Sarajevo serba.

“Neve fino al bordo dei fermaneve”, inizia con questa frase Preghiera nell’assedio (Kad sam bio hodža) il primo romanzo di Damir Ovčina, uscito quest’anno per Keller Edizioni e tradotto in modo esemplare da Estera Miočić. Un libro potente, per stile di scrittura (finalmente un autore con una voce titanica), per tematiche trattate e per l’amore verso una città che è infinito e totalizzante. Lo stesso amore per Sarajevo che ho trovato nella poesie di Sidran e Sarajlić.

Il libro inizia con la morte della madre del protagonista, un ragazzo non ancora ventenne. Siamo a prima dell’inizio dell’assedio, l’auto funebre porta la targa di Sarajevo con la stella rossa. Durante il funerale l’hodža dice “tutti i giorni, tre volte al giorno, questa tomba chiama e ricorda”. La solidarietà dei vicini di casa nel quartiere di Dobrinja che aspettano il protagonista e suo padre sul portone; poi passano da casa a lasciare cibo e beni di conforto, quando “essere vicini è come essere una famiglia”.

Poco dopo, per coincidenze e vicissitudini varie, il ragazzo rimane bloccato nel quartiere di Grbavica, dove è già in corso la pulizia etnica da parte dei nazionalisti serbi. Fermato e individuato dalla polizia, viene risparmiato e inserito in un’unità operativa della protezione civile serba. Inizia così a lavorare in una squadra che svuota gli appartamenti in cui non vive più nessuno e seppellisce i cadaveri vittime dell’epurazione etnica dei nazionalisti serbi. Ogni volta che la sua squadra operativa seppellisce un cadavere lui, solamente in quanto musulmano, viene individuato come hodža e invitato a pregare per i morti.

“Preghiera nell’assedio” è un viaggio nell’orrore degli anni Novanta del Novecento. Ovčina ci restituisce qualcosa che mai nessuno prima era riuscito a fare. “I tempi sono questi, si muore, si piange e si tace”.

C’è un grandissimo lavoro sulla complessità che viene fatto, per modalità, maniera e argomenti affrontati. Per la prima volta ci viene restituito ciò che accadeva nella parte della città occupata dei nazionalisti serbi, viene data una forma tridimensionale al male evitando semplificazione e appiattimenti consolatori. In questo modo Ovčina fa i conti con il passato.

Strutturata in milizie, esercito, polizia e protezione civile, la repressione operata dai nazionalisti serbi emerge su vari livelli di orrore e di accettazione da parte della loro comunità di riferimento. E così scopriamo come i comandanti dell’esercito si scontrarono duramente con le milizie cetniche e con i mercenari russi e bulgari, mentre la polizia interagiva con queste ultime in un connubio quasi perfetto.

Ma soprattutto ciò che accomunava i vari livelli era un radicale anticomunismo. La “polizia con la titovka1 senza stella rossa e con una toppa con le quattro esse cirilliche” Samo Sloga Srbina Spasava (Solo l’Unità Salva i Serbi), i vecchi partigiani titini di Grbavica uccisi dai nazionalisti, i serbi che accusano altri serbi di essere stati nel partito comunista mentre loro, più puri, militavano già nelle organizzazioni nazionaliste, “Tito, che con il suo atteggiamento indolente verso la nostra questione nazionale ha contribuito alla situazione attuale”. Un popolo martire e vittimista, caratteristiche queste che si associano al nazionalismo di ogni latitudine.

“Balija, urla, andatevene in Anatolia, ho pronti i biglietti di andata senza ritorno. Non è meglio così che continuate a darci addosso? Ne abbiamo avuto abbastanza di cinque secoli della vostra oppressione e delle vostre torri d’ossa”.

Ovčina però ci racconta anche dei serbi che si definivano jugoslavi (“io non posso e non voglio rinunciare a Sarajevo”) e che, rifiutando le armi, diventano i colleghi del protagonista nelle squadre operative. “Tutti ci fingiamo fessi, perché è arrivato il tempo in cui comandano imbecilli e fanatici, mentre noi altri, pur di essere lasciati in pace, facciamo finta che tutto ciò non ci riguardi, ci facciamo umiliare e fuggiamo. Non dovevamo permettergli di prendere il potere, no! Che fine ha fatto la Sarajevo di una volta, quel popolo, quella vita che sembrava luminosa, sconfinata e bella, a misura d’uomo? Che fine ha fatto?”, afferma amaramente un attore serbo, collega nella squadra operativa, che ha rifiutato l’arruolamento nell’esercito e nelle milizie.

La controparte di tutto questo orrore, è un incontro tra il protagonista e una ragazza. Quando il nostro rimane bloccato a Grbavica trova rifugio in un vecchio appartamento di proprietà dei suoi genitori. Nello stesso stabile, sulla linea del fronte, vive anche un’insegnante di russo di nazionalità serba. L’amore ai tempi dell’assedio di Sarajevo. Questa coppia resiste e corre il rischio, è un’unità di gesti e silenzi, di delicatezza e sentimenti positivi. Coppia mista di jugoslava memoria.

È in questa alternanza tra la tragedia della guerra all’esterno e il fiorire dell’amore all’interno, che permette a questo libro di diventare una grande romanzo, una storia di tutte le storie.

La seconda parte del libro (in totale 700 pagine) però cambia radicalmente il corso della narrazione. L’orizzonte urbano si chiude e la geografia dei luoghi della città diventa una geografia urbana proiettata al giorno della liberazione. “Lei ha pensato di venirmi a trovare per vedere e sentire il mio buio. Correnti d’aria. L’incertezza, la solitudine. L’isolamento. E ciò che resta, e ne resta molto, pensa, sotto tutto ciò che è inestimabile e indescrivibile”. Fino alla fine, nel libro, si succedono improvvisi colpi di scena e repentini cambiamenti, la narrazione non è mai doma. Quando sembra che stia per rallentare ed esaurirsi, avvitandosi nella stessa prosa con cui è scritta, una prosa davvero eccezionale, ecco che arriva una fiammata e tutto attorno divampa e ritorna dinamico.

Un libro scritto con una voce autoriale, senza compromessi alcuni con il mercato editoriale. Una scrittura diretta, d’azione e dinamica che è in grado però di avere una grande profondità emotiva e politica. “La vita è come un passaggio che va superato allargando un po’ le braccia tra l’attesa, i tormenti e la rabbia, la disperazione e i salti di gioia”.

Una scrittura densa di particolari, di nomi di vive, di luoghi, che ci fa camminare nei quartieri della città, in cui tutto diventa un mantra verso la liberazione di Sarajevo. È una danza delle parole quella di Ovčina, che riesce ad utilizzarle e a dosarle con grande precisione. “Sullo scrivere come stile di vita, sull’esperienza, sui paesaggi, sulle relazioni con il lavoro e le sconfitte”, è proprio su queste tematiche si basa la poetica di Ovčina e che ci permette di ascoltare la sua storia in modo ferocemente immersivo e partecipato. Un libro consigliatissimo. Un capolavoro.

“Per questo e tutto questo qui. E specialmente per questo”. Per Sarajevo.

1tipico berretto dei partigiani jugoslavi durante la seconda guerra mondiale.

Damir Ovčina, autore di “Preghiera nell’assedio”, assieme alla sua Buba* azzurra (*è il nome con cui veniva chiamato il Maggiolino della Volkswagen nell’ex Jugoslavia).