Il lavoro nobilita l’uomo: ma chi fa da ponte tra il carcere e le imprese?

«Il lavoro è qualcosa che ci qualifica. Quando ci presentiamo oltre a dire il nostro nome e cognome, spesso, aggiungiamo informazioni che riguardano il nostro mestiere; danno dei dettagli in più su chi siamo», sono le parole di Oscar La Rosa, proprietario del pub Vale la pena, quando parla dell’importanza del lavoro per detenuti ed ex detenuti.

Il lavoro «innesca dei circoli virtuosi» che vanno a influire non solo sul benessere psicosociale della persona, ma interessano anche l’economia. Ma a cosa si fa riferimento quando si parla di carcere, lavoro e detenuti? Gli scenari sono due: da un lato è possibile svolgere un’attività lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria stessa. Questo tipo di lavoro prevede mansioni semplici, che impegnano il detenuto per poche ore al giorno. Il punto di debolezza di questo tipo di attività è la bassa retribuzione e la mancanza di formazione specifica. Quindi, una volta scontata la pena il detenuto non ha acquisito attraverso questo tipo di attività nessuna competenza, che può costituire un punto di forza, spendibile all’esterno.

L’altra opzione è costituita dal lavoro alle dipendenze di cooperative del terzo settore.

«Il lavoro in carcere è un modo fondamentale per non stare in ozio. Ma aprire a una cooperativa esterna permette di avere una nuova visione, si vanno a spezzare le logiche del carcere. Oltre a costituire un modo per il detenuto di guadagnare e aiutare la sua famiglia rimasta fuori, serve per non avere più debiti con la giustizia», precisa La Rosa.