Per questioni politiche Louis-Ferdinand Céline è da sempre scrittore divisivo, ma da un punto di vista letterario è qualcosa di immenso e irripetibile. Abbiamo dovuto aspettare la morte di Lucette Destouches, sua seconda moglie, avvenuta a 107 anni nel 2019, per venire a conoscenza dell’esistenza di alcuni manoscritti inediti.

Abbandonati nel suo appartamento di Montmartre nel 1944 al momento della fuga verso la Germania nazista, sono stati consegnati quindici anni fa all’ex giornalista di Libération Jean-Pierre Thibaudat: «Un lettore di Libération mi chiamò e mi disse che voleva darmi dei documenti. Il giorno dell’appuntamento è arrivato con delle enormi borse che contenevano seimila pagine scritte. Erano di Louis-Ferdinand Céline. Me le ha consegnate ponendo una sola condizione: non renderle pubbliche prima della morte di Lucette Destouches poiché, essendo lui di sinistra, non voleva “arricchire” la vedova dello scrittore», ha rivelato Thibaudat a Le Monde. Nell’estate 2021 l’ex giornalista di Libération le ha rese pubbliche, assemblate assieme prendono lo spazio di un metro cubo di carta. Successivamente, nella primavera 2022, Gallimard ha pubblicato Guerre, uno dei manoscritti presenti in quelle seimila pagine.

Su chi le avesse trafugate dal suo appartamento nel 1944, Céline aveva un’ipotesi. Yvon Morandat, partigiano gollista, che nel settembre 1944 si trasferì a vivere nell’appartamento del Nostro a Montmartre. Quando Céline tornò in Francia nel 1951, ad amnistia ricevuta, Morandat lo contattò per restituirgli i manoscritti ma Céline rifiutò.

Guerra (Adelphi, 2023) è stato scritto nello stesso periodo di Viaggio al termine della notte. Inizialmente seguiamo Ferdinand, soldato ventenne ferito a un braccio e all’orecchio, mentre cerca protezione nelle retrovie. Durante questa sua marcia in solitaria, allucinata e onirica, attraversa i campi di battaglia delle Fiandre disseminati di cadaveri e fango. Successivamente lo ritroviamo in un ospedale, in mezzo ad altri malati e farabutti di ogni specie.

Episodi grotteschi, comici, raccapriccianti, pornografici, estremamente cupi e crepuscolari si susseguono in quella che è la petit music celiniana degli albori. In queste pagine c’è l’embrione di quella che sarà la sua scrittura, fatta di momenti estremamente profondi alternati a sprazzi di caustica comicità, in cui si contrappone un estremo vitalismo a una grande pulsione di morte. Tutto quello che è stato scritto in questa prima stesura, per il linguaggio estremo utilizzato, oggi sarebbe considerato totalmente impubblicabile.

Il più innovativo scrittore del Novecento ha fatto dell’uso dell’argot la cifra stilistica che gli ha permesso di inventare una lingua a parte, dirompente e inespugnabile. Ed è una lingua nata dalle periferie, miscelando il parlato al gergale, una lingua che parte dal basso per diventare una sinfonia d’avanguardia che scardina radicalmente le partiture classiche.

È proprio grazie a questo mix che riusciamo a capire al meglio il contesto in cui è immerso il protagonista, l’orrore straziante della guerra e la voragine esistenziale di chi è stato costretto a combatterla.

È proprio perché Céline non ci risparmia (e non si risparmia) nulla che possiamo pienamente immergerci nel dolore dei mutilati, tra le chiacchiere deliranti dei soldati ubriachi nelle osterie e nei bordelli, ascoltare i timori di chi vuole disertare mentre la morte rimane in attesa a fissarli nel buio. Nessuno di loro si esprime con parole giuste e posate, tutti loro sono figli della condizione in cui vivono: immersi tra la paura di morire in guerra e quella di morire fucilati dallo Stato, impossibile essere razionali o utilizzare la ragione. Tutto in Guerra fluisce sospinto dalla sopravvivenza, in questo libro si fanno i conti con la dimensione ancestrale dell’uomo, quella che richiede risposte rapide senza mediazioni. In fondo ci siamo scordati di chi ha combattuto e di chi combatte nelle guerre, sono sempre i figli della miseria che vanno a morire per le guerre dei padroni. Céline entra in queste ferite e la fa sanguinare, parlandoci dall’aldilà di un secolo scorticato, immerso in un mare di disperazione e violenza.

Come scritto nella nota stampa di Adelphi, «attraverso il suo delirio – il suo parlottio ipnotico, sbracato e ininterrotto, come il fischio del rimorchiatore sulla Senna, nella notte, che chiudeva il Viaggio –, ci si accorge che Céline è stato l’unico scrittore capace di nominarla [la guerra]. Dalla parte dei Buoni nessuno ha trovato la parola».

Ma non solo, Cèline anche in questo libro è stato in grado di trovare, in mezzo all’orrore e alla devastazione, spazi per il sublime. Questo è il suo respiro più grande, quello che ci ha fatto innamorare di lui, e cioè che dopo una tempesta di parole infuocate arriva sempre il momento della quiete:
«Ci siamo seduti sull’argine. Abbiamo guardato. Lontano, lontano c’era sempre il sole e gli alberi, tra poco arrivava l’estate. Ma le chiazze delle nubi di passaggio rimanevano a lungo sui campi di barbabietole. Lo ribadisco, è bello. È fragile il sole del Nord. A sinistra scorreva il canale addormentato sotto i pioppi pieni di vento. Se ne andava a zig-zag a mormorare quelle cose laggiù fino alle colline e poi filava dritto fino al cielo che lo proseguiva in azzurro prima della più grande delle tre ciminiere sulla linea dell’orizzonte».