Seconda parte

I vicini di casa di Adem sono quelli che hanno le seconde case sul fiume e passano le giornate grigliando felici tra le crepe del loro tempo libero. Adem invece no, lui si sente abbandonato da tutti, le sue crepe sono vaste come le insenature del Danubio alle Porte di Ferro, sono dei tagli profondi, sono le sezioni verticali del suo cervello esposte alle intemperie della storia, al vento dei detriti sparsi e dalle armi abbandonate, dei bossoli e dei caricatori lasciati nei campi di battaglia, sono esposte alle bufere delle guerre, agli angeli della desolazione. Adem, tu sei l’espulso dalla storia, tutto quello che di pacificato esiste ti è estraneo, e rimugini. Rimugini giornate intere mentre ripari uno dei pali della palafitte, mentre cucini lo stufato per i tuoi ospiti, mentre rimesti la zuppa sulla stufa economica, mentre zappi l’orto o conti la parte da destinare al mercato ortofrutticolo cittadino. Tutto è sempre dentro di te, tra i tuoi pensieri, nei meandri delle tue inossidabili maniere dolci e accoglienti.
Lo splav della kafana è pieno di luce, da lì si vede il tramonto sul bolide di Belgrado, il cielo sconfinato, l’orizzonte caldissimo come la bocca di una fornace. Poco più in là c’è la confluenza dei fiumi, appena dopo l’ultima ansa della Sava, ed è protetta dagli alberi ad alto fusto che prolificano, come una foresta tropicale, sulle rive dei fiumi. Adem ce ne parla sempre come una confluenza tra due mondi con la stessa cultura e lo stesso destino, quella Mitteleuropea e quella Balcanica, entrambe un tempo territori di interconnessioni culturali, di famiglie miste, di festeggiamenti di tutti i santi e le santità, di buon vicinato nelle possibilità delle differenze e dei domini coloniali interni, ora totalmente in balia del nazionalismo e dell’identitarismo culturale. Ogni volta che parla di politica si mette in cattedra e ci spiega tutto quello che dobbiamo sapere, ogni volta con sfumature nuove, con sempre nuove informazioni. Conclude spesso affermando che “ora è stato tutto distrutto dall’identitarismo religioso, chiese ortodosse, chiese romane, moschee, tutto porta all’inasprimento delle diversità e delle appartenenze. Non più voglia di condividere, ma di separarsi, ognuno per la sua strada”, dice sempre, “ognuno per i fatti suoi, da soli assieme ad altri che sono soli nell’identità ritrovata. Si rincorrono società di solitudini, saranno destinante all’estinzione. Ditemi voi a cosa servirà mai rivendicare di avere un’identità nazionale o religiosa differente dalle altre?”, le risposte che diamo sono spesso incerte e claudicanti.
Noi tutti quando l’ascoltiamo ci aspettiamo che continui, magari con piglio da profeta o da rivoluzionario, pontificando su argomenti borghesi come la bellezza e la poesia del vento che arriva in tarda serata, lo stesso vento che arriva dal fondo del fiume e che l’ha sferzato in un’unica potente raffica dalle Alpi Giulie fino a Belgrado. Invece continua sempre a valutare le increspature degli umori comuni: “in tutti i territori attraversati dai due fiumi si rivendica il proprio fazzoletto di terra sterile e improduttivo, ci si è fatti ammazzare per difendere pietre e alberi da una linea di confine spostata più o meno avanti o indietro di qualche chilometro, ancora oggi sarebbero tutti pronti a farsi ardere vivi pur di difendere la patria. Eh cari amici, cari compagni, insieme eravamo forti, tutti uniti eravamo sempre poveri ma solidi, indistruttibili, isolati siamo solamente più deboli e infelici”.
Con Adem, è Nina a gestire l’attività. Prova con grande sacrificio a darsi un futuro quando futuro non c’è. Sono occhi quelli di Nina che sbriciolano ogni certezza e vanno ad inquinare ogni sicurezza erudita. “La forma della resistenza dei giovani proletari serbi era la musica e il punk. Noi eravamo disgustati da tutta la questione della guerra, sentivamo che chi ci aveva preceduto su quella terra si stava rivoltando nelle tombe e la loro bile scorreva in fiumi sotterranei pieni di indignazione e rabbia. Noi non volevano la Grande Serbia, non volevamo portare tutti i serbi in Serbia per farli riunire ai loro compatrioti, perché i nostri compatrioti erano tutti gli jugoslavi, nessuno escluso”. Quando parlo con Nina i suoi occhi, le sue mani, il suo volto, tutto comunica in lei la tensione di quegli anni.
“In pochi hanno capito che cos’è successo qua, soprattutto all’estero, qua si è dissolto tutto senza nessuna continuità con il passato! Tra i distruttori non erano presenti i valori della fratellanza e unità tra i popoli, loro erano solamente nazionalisti che hanno arricchito i loro amici, distruggendo tutto quello che era stato costruito prima, punto! Ci hanno tolto tutto: tra suicidi, omicidi, privatizzazioni e mafiosi locali, per noi non è rimasto più nulla. La nostra spinta propulsiva derivava dalla voglia di disintegrare il potere, non di abbracciarlo, l’Europa non aveva capito niente”. Nemmeno noi Nina avevamo capito, perché negli anni abbiamo letto la storia non con i nostri occhi, ma con gli occhi dei nostri capi e referenti politici. Isolati per anni, da fuori e da dentro, con una tracotante forza repressiva della polizia su tutti i livelli, controllati ovunque e in qualsiasi aspetto della quotidianità, i giovani belgradesi subirono il bombardamento della città e solo nell’aggregazione degli spazi sociali e ricreativi si ritrovarono a comunicare la propria condizione di vita. Il punk fu il come, i concerti furono il mezzo, la musica l’unico modo per comunicare.
“Tutto questo per la patria capite? Perché considerata eletta e migliore delle altre, noi, la mia generazione, non riesce ad avere una vita perché qualcuno ha distrutto tutto per avere tra le mani un pungo di mosche. Sai, ho smesso da tempo di provare paura per come vivo o cosa dico, finalmente faccio quello che voglio e non me ne frega un cazzo di quello che possono pensare gli altri, anche se lo sappiamo, il nemico interno è sempre in agguato. Ma io non mi arrenderò mai alle loro bugie, perché so che ci sarà sempre qualcuno quando tutto riaffonderà un’altra volta. Anche solo per il fatto che te ne sto parlando ora con te, so già che c’è qualcuno”1.

1Parte di questo passaggio è ispirato al testo della canzone Odavno, dei Pasi, gruppo punk formatosi nel anni Novanta a Rijeka