C’è un sole debole e offuscato a rischiarare il fienile in cui si incontrano le protagoniste di Women Talking, quarta opera di Sarah Polley, che torna dietro la macchina da presa dopo il successo del documentario Stories we tell. Questa luce dimessa e cupa ci dà subito il tono del racconto: le donne di questo remoto villaggio religioso hanno infatti scoperto di essere state narcotizzate e violentate per anni durante la notte; i traumi fisici, così come i ricordi spaventosi che si portano dietro, non erano dunque opera del demonio, né tantomeno “atti di immaginazione femminile”, come suggerivano gli anziani della comunità. Ora gli aggressori sono stati catturati e presi in custodia, e le donne hanno due giorni per scegliere: se andarsene dalla comunità, se restare senza fare nulla, oppure “restare e combattere”.

A chi non l’abbia visto non sveleremo certo il finale del film, ma del resto il finale è quel che meno interessa di una trama esile e al tempo stesso stratificata per la quantità di temi e quesiti morali che solleva – non a caso Women Talking ha ricevuto il premio Oscar per la sceneggiatura: un premio sempre più fragile, che dice ormai ben poco sul destino del cinema, ma dice ancora molto sul bisogno, non solo americano, di disinnescare i conflitti e i dibattiti del momento. Non è sul finale insomma, ma proprio sulle premesse, sull’ambientazione e sulle scelte registiche che vale la pena soffermarsi. A sei anni dal Me Too, in un vivo clima di riflessioni e rivendicazioni femministe, sulla carta Women Talking sembra il film che stavamo aspettando, un film che ci parla di una comunità di donne che per la prima volta si trovano a decidere soltanto per sé stesse. Allora a cosa si deve l’insoddisfazione palpabile già dalle battute iniziali?

Partiamo dall’ambientazione, o meglio, dalla volontaria confusione di ambientazioni. Il villaggio rurale, così come l’abbigliamento delle protagoniste – incarnate da interpreti d’eccezione, tra cui Rooney Mara, Claire Foy e Jessie Buckley – evocano immediatamente atmosfere medievali, ma ci troviamo in realtà in una comunità rurale degli Stati Uniti di inizio ‘900. È una sovrapposizione di tempi interessante, che ci mostra, in maniera esasperata, come certe dinamiche di potere sopravvivano intatte, nonostante l’apparente progresso. Vale però la pena ricordare che il film è la trasposizione sullo schermo dell’omonimo romanzo di Miriam Toews, che a sua volta prende spunto dalle violenze consumatesi tra il 2005 e il 2009 in una comunità mennonita della Bolivia. Il mondo ritratto in Women Talking, insomma, non è soltanto metaforico.

Per essere contadine a cui è stata negata ogni possibilità di istruirsi, è evidente che le donne di Women Talking si esprimono con una erudizione e una vivacità di pensiero degne di un cenacolo di filosofi: persino August, il maestro del villaggio, unica figura maschile positiva di tutto il film nonché unico uomo che abbia avuto il privilegio di studiare all’università, incaricato di redigere un verbale della discussione quasi fatica a seguire le continue disquisizioni su Dio, sulla legittimità della rabbia o del perdono.  È giusto vendicarsi dei torti subiti, oppure così facendo si somiglierebbe ai propri aguzzini? Ha senso perseguire il bene in attesa di un paradiso ultraterreno, se poi è l’inferno quello che esperiamo giorno per giorno? È preferibile restare cercando di rimediare le storture della propria comunità, oppure andarsene fondando altrove una nuova comunità – ma dove, e su quali basi? Sono alcuni dei quesiti che le protagoniste si pongono, mentre raccontano e rielaborano le violenze subite negli anni.

La prima critica che viene naturale rivolgere al film di Polley riguarda proprio la scarsa credibilità delle sue protagoniste: così ieratiche e assertive, più che donne di villaggio non istruite paiono professoresse universitarie sotto mentite spoglie, pure se siedono su balle di fieno e non tra le sale di un ateneo. Ma di per sé questa forzata rivisitazione del genere storico non è né una novità né necessariamente una debolezza, e il cinema contemporaneo pullula di operazioni di questo tipo. Tradendo la verosimiglianza storica si può anche guadagnare una libertà che la verosimiglianza non potrebbe concedere: basta pensare a Ritratto di una giovane in fiamme di Céline Sciamma, che rovescia gli stilemi del romanticismo immaginando una solidarietà femminile che sarebbe stata impensabile nella società di fine Ottocento; basta pensare a Orlando di Paul B. Preciado, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Berlino, un ibrido di documentario e finzione basato, anziché su una classica riproposizione in costume del romanzo di Virginia Woolf, su interviste a persone trans e non binarie. Talvolta si tradisce la verosimiglianza per concedersi affondi psicologici che altrimenti rimarrebbero inaccessibili, come nel caso di Corsage di Marie Kreutzer, che ci presenta un ritratto di Elisabetta d’Austria ben più complesso di quello a cui siamo abituati, e la scelta delle colonne sonore, con brani di artisti contemporanei tra cui Soap & Skin, contribuisce a farci sprofondare nella mente ossessiva della protagonista.

La ricostruzione pedissequa è insomma solo una delle strade possibili con cui si può approcciare al dramma storico. Il problema è che Sarah Polley non sceglie questa strada, ma non ne sceglie nemmeno una più audace: “Quello che segue è un atto di immaginazione femminile” dice provocatoriamente una delle protagoniste all’inizio di Women Talking, tentando di rovesciare in positivo l’accusa mossa alle vittime dagli uomini della comunità; eppure è proprio la regista a bloccare sul nascere qualsiasi tipo di immaginazione, chiedendo alle sue protagoniste – quasi indistinguibili tra loro, tanto sono prive di sfumature – di essere incarnazioni di idee morali, anziché lasciarle vivere sullo schermo. Il risultato è uno strano e sofisticato saggio in forma visiva che possiamo guardare prendendo appunti, ma dal quale è difficile sentirsi coinvolti.

Non possiamo chiedere a un film di reagire a tutto ciò che accade fuori dalla sala cinematografica; possiamo però chiederci che cosa vogliamo noi, spettatrici e spettatori, una volta usciti dalla sala cinematografica. C’è infatti un ultimo punto su cui vale la pena soffermarsi: come altri film e altre serie di questi anni confusamente etichettati come “femministi”, Women Talking ci chiede di assumere il punto di vista di donne ripetutamente violentate e umiliate. È una questione non da poco, che affronta anche Elisa Cuter nel suo saggio Ripartire dal desiderio, prendendo in esame l’iconica quanto problematica serie The Handmaid’s Tale, dove, in un futuro immaginario colpito dalla sterilità, le donne ancora fertili sono ridotte a schiave sessuali. Secondo Cuter, l’esibizione insistita della violenza su cui poggia la serie finisce per essere “rassicurante sul piano morale, non lasciando spazio a nessuna ambiguità. Come in una favola gotica, il cattivo è il cattivo, senza possibilità di psicologismi, di sottigliezze, di autocritiche – né di un discorso sistemico”. È una critica che possiamo muovere anche a Women Talking, dove le protagoniste sono soltanto vittime e soltanto virtuose, nobili persino nella sofferenza più estrema. Dopo la visione, è inevitabile chiedersi se sia davvero questa l’unica forma di solidarietà che siamo capaci di immaginare: una solidarietà che si basi (per le donne quanto per tutte le categorie storicamente oppresse) esclusivamente sul trauma, sulla mortificazione e sul dolore.

Le protagoniste di Women Talking rivendicano con parole erudite e perfette la loro libertà, ma la regia statica e oppressiva, virata sui toni di blu e di verde che le invischiano ancora di più tra le case del villaggio, le relega a icone solenni, a sofferenti Madonne rinascimentali. Forse resteranno nella loro comunità, forse tenteranno una fuga verso l’orizzonte sfumato che si intravede oltre il fienile: poco importa, finché non riusciranno a immaginare un quadro diverso.