Orlando, una biografia politica. Dispacci dal Festival di Berlino #2

A vederlo da fuori, il Kino International farebbe pensare a un efficiente quartier generale innestato lungo il monumentale viale di Karl-Marx-Allee. Non stupisce che questo slavato parallelepipedo, eretto nei primi anni Sessanta, fosse il cinema prediletto dai funzionari della Repubblica Democratica Tedesca: prima ancora che dai film che qui venivano proiettati, l’utopia socialista era già incarnata dalle linee squadrate dell’edificio, dalle alte finestre regolari, dalla facciata scarnificata fino a un rigore che non concede nulla all’afflato romantico che possiedono molti altri cinema di Berlino.

È allora curioso che proprio in questa sede tanto austera sia stato proiettato Orlando, ma biographie politique, il primo lungometraggio di Paul B. Preciado – un film che di austero, di regolare e conforme non ha proprio niente. Tanto per cominciare, è già difficile dire di che film si tratti: non solo documentario, non solo opera di finzione, non solo film-saggio sull’omonimo romanzo di Virginia Woolf, ma tutte queste cose insieme. 

L’ibridazione è del resto la specialità di Preciado, filosofo e scrittore spagnolo ormai divenuto un vero e proprio punto di riferimento nell’ambito delle politiche femministe e dei gender studies. Per chi non lo conoscesse, Manifesto Controsessuale, pubblicato da Fandango nel 2019 con la traduzione di Liana Borghi, è forse la migliore introduzione al suo pensiero felicemente provocatorio: le sessualità è una lingua, ci dice Preciado, e fin da bambini siamo educati al monolinguismo, a riconoscere cioè come normale un orientamento che di normale o naturale non ha nulla, rappresenta semmai un complesso costrutto culturale.

Più che normare, il manifesto di Preciado vuole allora decostruire quel che crediamo di sapere sul corpo e sulla sessualità, fornendo le coordinate minime perché chiunque possa iniziare a orientarsi (o perdersi) nel proprio desiderio.

Nelle parole dell’autore, il testo rappresenterebbe “la risposta arrabbiata e irriverente alla castrazione etero-coloniale della radicale molteplicità dell’essere umano”: una definizione, questa, che potremmo senza timore adoperare anche per il primo e pirotecnico film di Preciado. 

Virginia Woolf è l’immaginaria destinataria di questa lettera filmata, in cui l’autore mescola riflessioni personali, proposte attraverso la sua voce narrante, con interviste a persone non binarie. Proprio a questi soggetti che faticano a trovare adeguato riconoscimento nella società, perpetuamente costretti entro definizioni che non li rispecchiano, Preciado concede il ruolo di protagonisti: ognuna di queste persone è infatti chiamata a dire il proprio nome davanti alla camera (il nome che si sono scelte, non quello ancora dolorosamente riportato nei documenti anagrafici) e a dichiarare, con sguardo fiero: “In questo film interpreterò Orlando di Virginia Woolf”.

La biografia dell’autore diviene insomma l’occasione per accoglierne molte altre, tanto che lo stesso Preciado, con l’acutezza che può avere solo uno scrittore, si domanda a un certo punto che cosa sia davvero una biografia: se una mera sequenza di eventi, una collezione di accadimenti sentimentali, o piuttosto il racconto di una trasformazione, “di come ci trasformiamo e ci lasciamo trasformare dal tempo”. In trasformazione sono senz’altro i molti Orlando che prendono parola nel film, come la ragazza trans che dichiara di non sentirsi certamente più uomo, ma nemmeno soltanto donna, e per il momento vuole godersi tutta l’indeterminatezza della sua condizione. Viene davvero da chiedersi di cosa mai abbiano paura i convinti sostenitori di un’identità rigidamente binaria, perché anche spettatori e spettatrici che si riconoscono felicemente nel proprio genere non possono che godere di un film che ha a tutti gli effetti il carattere di una festa: la messinscena squisitamente teatrale, con le ambientazioni delle interviste che cambiano continuamente come scenografie portate su agili carrelli, evoca il mood giocoso di certi film di Agnès Varda o Alejandro Jodorowski, mostrandoci lo stesso film come un vero e proprio Orlando in continua costruzione.

Del resto, in quale altro modo era possibile tradurre nel tempo il visionario romanzo di Virginia Woolf, se non con un film restio a qualsiasi classificazione? Il cinema di finzione soffre da tempo di una certa stanchezza, di cui la stessa Berlinale è consapevole. L’Orso d’oro alla carriera quest’anno verrà assegnato a Steven Spielberg, forse il regista che più di tutti, a partire dagli anni Settanta, ha incarnato un’idea moderna e classica di cinema come raffinata evasione, dove ogni dettaglio, dall’interpretazione degli attori agli effetti speciali (garantiti da una produzione milionaria, e in definitiva americana), concorre a sospendere la nostra incredulità. Eppure è come se la stessa Berlinale, riconoscendo a Spielberg la massima cristallizzazione di questa forma cinematografica, al tempo stesso ne intuisse già le crepe, i sintomi di uno stato in avanzata decomposizione. Il programma di questa 73esima edizione è fitto di opere strane, ibride, che usano materiali d’archivio per raccontare una storia di finzione, o, come Orlando, usano delle interviste per sviscerare un romanzo. Forse l’unica cosa che si può rimproverare a Preciado è allora di non aver dimostrato nell’immagine la stessa vivacità che caratterizza la sceneggiatura, perché i corpi vengono intervistati davanti alla macchina da presa in un modo tutto sommato classico, ma la provocatoria libertà del film rappresenta già di per sé un traguardo da cui è difficile, e non auspicabile, tornare indietro.

A pensarci bene, non è poi così insolito che un’opera come Orlando abbia abitato gli spazi del Kino International: dalle ampie vetrate schiuse su quella che un tempo era Berlino Est, questo segmento di città si mostra come uno spazio in divenire, uno sfilare di viali larghi e vuoti e ancora non saturati da progetti urbanistici, in cui è possibile immaginare qualsiasi futuro. Forse anche questa strana metropoli ha qualcosa di Orlando, e la libertà dei suoi costumi è in fondo il risultato della sua storia – una città abbattuta e ricostruita, divisa e riunificata, che si trasforma giorno dopo giorno senza dimenticare i pezzi di ciò che è stata, e senza nemmeno la fretta di scoprire cosa può diventare.