Fin dai tempi di Rughe, la memoria rappresenta un nodo centrale nell’opera di Paco Roca. La memoria come fulcro dell’identità personale, sgretolata da una malattia o sbiadita dal tempo.

Già con il formato e la copertina, Ritorno all’Eden – pubblicato in Italia da Tunuè a fine 2021 – conferma di voler continuare a percorrere questo solco fortunato. È da una foto ingiallita, infatti, che i personaggi ritratti ci guardano curiosi.

Il volume stesso ha la forma orizzontale di un album di foto, rendendo ancora più affascinante l’immersione in questo passato lontano, in questa dimensione privata che però a ben guardare ci accomuna tutti.

Ma che significato attribuire al titolo? Quale sarà l’Eden a cui tornare?

Tutto il racconto ruota intorno a una foto scattata nel 1946 sulla spiaggia di Nazaret, a Valencia, un luogo ormai sparito dopo essere stato inglobato nell’espansione del porto cittadino.

La foto ritrae la famiglia di Antonia, protagonista del volume, che nel presente ci viene mostrata ormai anziana, intenta ad ammirare la stessa foto come se fosse il suo più grande tesoro.

Da quella immagine, che ferma un istante preciso nel tempo e nello spazio, si dipana un racconto che svela il percorso dei personaggi fino a quel momento e gli sviluppi successivi della loro storia. Ma non solo.

Ritorno all’Eden è un racconto che tiene insieme con spiazzante naturalezza – forse un po’ meno sorprendente per chi già conosce l’autore – la storia familiare, l’affresco sociale e la parabola esistenziale.

La capacità della fotografia di catturare un momento effimero e irripetibile diventa per Paco Roca una straordinaria leva narrativa, con cui viaggiare nell’immensità infinita del tempo e dello spazio.

La Spagna franchista negli anni successivi alla guerra civile è lo scenario claustrofobico dove si muove la protagonista, allora bambina, insieme alla sua famiglia, costantemente oppressa dalla povertà.

La madre Carmen, che conduce una vita di sacrifici alla mercé del marito Vicente, è praticamente l’unico punto di riferimento per Antonia, oltre alla sorella più grande Amparín.

Le tre figure, molto diverse tra loro, si combinano in un ritratto asciutto e senza fronzoli della condizione femminile nella società spagnola dell’epoca, quasi una storia nella storia rispetto alla vicenda familiare complessiva.

Nel contesto di questa vita dura, quasi spietata, i rari e isolati momenti di gioia meritano il riconoscimento straordinario di una fotografia: così accade, in quel lontano 1946, sulla spiaggia di Nazaret.

Decostruita dal racconto, la foto rivela tutte le crepe e la fragilità dell’istante gioioso che aveva preteso di immortalare. Ma tanto basta, ad Antonia, per conservarla come un cimelio per tutta la vita.

Ecco allora, in un parallelismo biblico che attraversa tutto il racconto come se fosse la Genesi, la spiegazione di quel titolo altrimenti indecifrabile, il significato di quell’Eden misterioso.

Il Paradiso perduto, se mai è davvero esistito, è quell’ultimo momento di normalità apparente in compagnia degli affetti più cari, prima che le crepe affiorino a compromettere la rappresentazione.

Ma forse, sembra dirci tra le righe Paco Roca, la mitologica età dell’oro non esiste, se non nella nostra memoria e nella sua capacità di creare un Eden a cui fare ritorno tra le pieghe ingiallite di una vecchia fotografia.