L’appuntamento con una nuova opera a fumetti di Gipi non è mai banale. Perché se c’è un autore capace di non dare punti di riferimento pur mantenendo uno stile perfettamente riconoscibile, quello è proprio Gipi.

Non è un caso se Stacy, graphic novel pubblicato da Coconino lo scorso ottobre, comincia come Fight Club – “Solennemente prometto che non parlerò mai di Stacy” – e finisce come Persona di Ingmar Bergman.

Tutto nasce dallo spunto autobiografico di una polemica social che ha travolto l’autore nel 2021, ma fin dal preludio l’opera spiazza costantemente il lettore intrecciando realtà e fantasia, allegoria e finzione.

Rispetto al film di David Fincher, al posto di un unico plot twist ci troviamo di fronte a un susseguirsi di piccoli-grandi colpi di scena, determinati soprattutto dal continuo scambio di ruoli tra i personaggi principali.

Ben presto, diventa chiaro che la partita si gioca nella mente del protagonista per una consistente porzione del racconto, in un modo che ricorda Persona e un altro capolavoro del maestro svedese.

Lo stratagemma delle personalità multiple, infatti, serve all’autore per mettere in evidenza il divario che può crearsi tra quello che si dice e si fa nel “bel mondo” della “società civile” e quello che si vorrebbe dire e fare realmente.

Un divario che nasce magari in preda al furore di momento difficile, o semplicemente una volta constatata l’ipocrisia e la superficialità che regnano sovrane in determinati ambienti sociali come quelli evocati nell’opera.

In questo senso, Stacy ricorda anche L’ora del lupo di Bergman e si presenta come una sottile “indagine sul male”, a cominciare da quello all’interno di noi stessi, come dichiarato pubblicamente dallo stesso Gipi.

Stacy, quindi, è al contempo percorso di espiazione, messa in discussione di alcune forme del discorso pubblico odierno e tentativo di fare i conti con il lato oscuro che proverbialmente alberga in ciascuno di noi.

Il modo cui Gipi trasforma questo complesso fluire filosofico di pensieri e sensazioni in una storia che ha il ritmo, la suspance e le caratteristiche di un thriller non fa che confermare la sua maestria narrativa.

Ma allo stesso tempo la porta su un altro livello anche rispetto al precedente Momenti straordinari con applausi finti, che pure aveva dimostrato la capacità di raccontare una storia in modo diverso dallo stile con cui Gipi ha raggiunto i vertici del fumetto mondiale.

Con Stacy – che comunque richiama l’opera del 2019 – assistiamo a un ulteriore salto in avanti verso la frontiera di un’esplorazione di sé condotta senza alcuno sconto, anzi con un approccio nei propri confronti spietato fino al massimo grado di lucidità.

Un’esplorazione che riguarda con lo stesso livello di sperimentazione anche le potenzialita del medium fumetto, sfruttate fino al punto di forzarne i confini, alternando pagine di vignette con testo manoscritto e battuto a macchina.

L’effetto di questa complessa “elaborazione del lutto” – se così si può definire – è una sensazione vorticosa di straniamento continuo, un coinvolgimento emotivo e intellettuate allo stesso tempo avvincente e disturbante.

La “risalita” infatti non elimina il risentimento che ha portato il protagonista a toccare il punto più basso della sua parabola, anzi rende tangibili conseguenze che fino a quel momento sembravano essere solo immaginate.

Dopo la gogna mediatica, sembra dire Gipi, non si torna più uguali a sé stessi. Forse più consapevoli, forse più maturi, ma anche più stanchi e disillusi rispetto ai meccanismi che regolano il funzionamento della sfera pubblica, specialmente nell’era dei social.

“O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”, dice Harvey Dent nel film Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan: le vicende di Gipi e del protagonista di Stacy si potrebbero sintetizzare così, se non fosse una tesi fin troppo semplicistica che il graphic novel dimostra e confuta allo stesso tempo.

Trasformando anche un’esperienza del genere nell’ennesima opera da ricordare, Gipi sorprende ancora una volta, supera aspettative sempre alte e mette in discussione in modo tutt’altro che banale gli ingranaggi che regolano il nostro cosiddetto vivere civile.