Bisognerebbe inventare nuove definizioni per chi, come Sandra Hüller, non si limita a restituire un personaggio, ma assume su di sé il peso dell’intero film. “Attrice” o “attore” non bastano a descrivere queste figure che appaiono sullo schermo assorbendo tutta la nostra attenzione, compiendo qualcosa che va ben oltre la credibilità per sconfinare nel sortilegio, snocciolando le battute iniziali come la formula di un incantesimo al quale non potremo sottrarci.

Diretto da Justine Triet e insignito della Palma d’oro al 76° festival di Cannes, Anatomia di una caduta è, innanzitutto, la prova di un’interprete fascinosamente ambigua: nessuna emozione è decifrabile una volta per tutte sul viso di Hüller, il suo bel volto androgino somiglia al paesaggio innevato in cui è ambientata la storia – un remoto quanto imprecisato borgo sulle alpi francesi, fitto di sentieri boscosi che si possono soltanto intuire sotto i cumuli di neve abbagliante. Questo mistero e questa ambiguità sono qualità che Hüller porta con sé in ogni film, ma che qui si addicono particolarmente alla protagonista che le è chiesto di incarnare: Sandra, scrittrice di successo di origini tedesche, è accusata di aver ucciso il marito Samuel, ex insegnante e scrittore in crisi, gettandolo dal piano alto del loro chalet. A ritrovare il corpo è il figlio undicenne e ipovedente Daniel, di ritorno da una passeggiata con il suo fidato pastore australiano – presenza misteriosa e inquieta di tutto il film, i cui occhi azzurri e spalancati hanno forse visto più di quel che è possibile raccontare.

Da questo momento in poi, la morte apparirà sullo schermo solo attraverso una miriade di rappresentazioni: attraverso gli esperimenti, i plastici, i più puntigliosi calcoli di traiettorie con cui i periti tentano di dimostrare, al di là di ogni dubbio, che il marito di Sandra sia stato spinto oppure si sia gettato da sé. Nel lungo processo cui viene sottoposta la protagonista, che è poi il corpus principale del film, ogni indizio che ci faccia propendere per una versione o l’altra della storia si accompagna a un indizio di senso opposto, le ipotesi che l’accusa formula con veemenza vengono smontate dalla difesa e viceversa, in un susseguirsi di certezze che si dissolvono rapidamente, proprio come le tracce di sangue sulla neve acquosa.

Ciò che viene scandagliato, sotto le luci severe dell’aula di tribunale, non è soltanto la personalità di Sandra o del marito, il loro rapporto tutt’altro che pacifico, le loro ambizioni o frustrazioni lavorative, ma anche l’attività letteraria della protagonista, ispirata, per sua stessa ammissione, a episodi autobiografici.

I romanzi vanno infatti considerati opere di finzione, oppure, dal momento che non è chiaro neanche per l’autrice quanto la vita influenzi la sua scrittura, ci aiutano a comprendere questa donna così inaccessibile, e forse contengono persino premonizioni della violenza che potrebbe aver compiuto? Soprattutto, quella che si dipana udienza dopo udienza è l’ennesima storia scritta da Sandra, o il suo onesto tentativo di difendersi dalle accuse?

Justine Triet ci pone queste domande senza retorica, grazie a una sceneggiatura precisa e intelligente, scritta insieme ad Arthur Harari, e soprattutto grazie a una regia minimale che si tiene sempre a debita distanza, senza l’ansia di seguire ogni mossa della protagonista, spesso assumendo il punto di vista dei giornalisti che seguono il caso. È proprio la regia meditativa e analitica che ci costringe a stare sempre all’erta, a non rilassarci mai su una posizione definitiva, il vero scarto con Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, il legal drama per eccellenza, cui Triet si ispira dichiaratamente già dal titolo, e che ha prodotto infiniti epigoni nella storia del cinema.

Quel che voleva Preminger, nel lontano 1959, era vivisezionare l’America puritana, dove i desideri repressi esplodevano nelle notti allucinate e violente che il cinema di quel periodo ha raccontato così bene – e questa investigazione profonda, questo tentativo della ragione di scovare le parti più oscure e recondite dell’animo umano, è in fondo il cuore di ogni storia in cui compaia un dibattimento processuale, quasi che l’aula del tribunale non fosse che un’immensa scatola cranica affollata di spettri. A oltre sessant’anni di distanza, Triet compie un’operazione opposta, insinuandoci il sospetto che questa intima verità non sia conoscibile una volta per tutte, ma solo attraverso i frammenti di storie che ci raccontiamo e in cui abbiamo bisogno di credere.

Una simile narrazione non sarebbe stata possibile senza il talento recitativo di Hüller, senza la sua espressività davvero traslucida, che lascia intuire molto più di quanto mostri. Sandra – affibbiare al personaggio lo stesso nome dell’attrice è in fondo un modo per confondere ancora di più finzione e realtà – è il centro magnetico del film, un astro che a tratti detestiamo ma dal quale non possiamo non sentirci attratti; del resto, lei non ha alcuna intenzione di compiacere. Ambiziosa, severa, sicura del proprio talento, tutt’altro che madre amorevole o angelo del focolare, anzi gelosa del tempo che dedica alla scrittura, questa donna così diversa dalle donne che siamo abituate a vedere sullo schermo pare una reincarnazione della Charlotte protagonista di un magnifico racconto di Ingeborg Bachmann, A un passo da Gomorra, contenuto nella raccolta Il trentesimo anno: «L’immagine della cacciatrice, della grande madre, della grande meretrice, della samaritana, dell’incantatrice degli abissi marini e della donna innalzata dagli astri… Io non sono nata con nessuna di queste immagini addosso, pensò Charlotte. Per questo vorrei un’immagine antagonista e vorrei costruirmela da sola».

Forse, a restituirci l’impressione di una protagonista-antagonista, di un personaggio così mirabilmente inaccessibile, è anche l’inglese corretto eppure artificiale in cui Sandra si esprime, quel «middle ground», come lei stessa lo definisce, che aveva imposto alla sua famiglia, e che non cedeva né al francese parlato dal marito – che è poi la lingua in cui si svolge il processo – né al suo tedesco di origine. Una lingua straniera e padroneggiata bene, senza inciampi e senza eccessi emotivi, confortevole come una stanza che Sandra può arredare a suo piacimento, occultando o rivelando parti di sé stessa – «quell’ultima stanza segreta» che la Charlotte di Bachmann vede schiudersi oltre le proprie palpebre.

«Mi piace quando i registi mi lasciano avere i miei segreti. Non hanno bisogno di sapere da dove provengono le emozioni» dice Sandra Hüller in un’intervista al Document Journal.

I segreti, precisamente: in un immaginario contemporaneo ossessionato dalla visibilità e dalla coerenza algoritmica del racconto, dove tutto deve avere una spiegazione e venire alla luce, Anatomia di una caduta si distingue proprio per ciò che non dice e non mostra.

Preservando fino all’ultimo la propria ambiguità, e i segreti della protagonista, questo film così strano tradisce i canoni del genere investigativo per suggerirci che è la morte alla base di ogni racconto: a questa morte oscena e inconoscibile, noi ci opponiamo con tutte le nostre forze, sovrascrivendo i ricordi, tentando un ordine e una logica in mezzo a quelli che altrimenti sarebbero solo indizi senza soluzione, tracce di una vita che si consuma presto, sotto il sole impietoso di un pomeriggio d’inverno.